domenica 30 settembre 2012

Peloponneso on the way back. Si torna sul continente.


A questo punto del nostro peregrinare, il Peloponneso Occidentale è praticamente casa. Siamo al 3° passaggio su questa via continentale che nulla ha da invidiare al percorso insulare. Ci manca, invece, il Peloponneso Orientale, visitato 20 anni fa da terra ma mai da mare, mai con P’acá y p’allá. Sarà per il prossimo viaggio, quando nello scendere a favor di Meltemi non ci faremo incantare dalle sirene delle Cicladi ma andremo giù lungo la costa diretti a Capo Maleas. Ma ci sarà mai una volta in cui le sirene dell'est smetteranno di esercitare il loro fascino? Non credo, vedremo. Per ora, restiamo al nostro viaggio che viverne più d'uno contemporaneamente non è per niente sano. 
Quando conosci bene un percorso, le tappe di sosta le hai già in mente: sono i luoghi che, per un motivo o per un altro, ti hanno toccato di più, quelli in cui ti senti a tuo agio, i posti dove ti sembra di tornare dagli amici, dove sai già qual è il fornaio col tuo pane preferito.
Quei porti di cui hai il numero del rifornimento carburante memorizzato sul telefono, quei moli a cui ti dirigi con sicurezza, senza bisogno di testare il fondale avvicinandoti di prua,  perché già sai che è sufficiente per il tuo pescaggio. Quelle rade in cui vai direttamente verso la chiazza di sabbia più abbondante, senza indugiare in perlustrazioni preliminari. I neofiti ti guardano e pensano che sei del luogo. Eppure, ogni volta riscoprire quei luoghi è una nuova scoperta. La luce è diversa, c’è più o meno gente, è cambiata l’insegna della taverna, e per quanto cerchi di ricordare dove esattamente eri ancorato/ormeggiato non ci riesci mai con precisione. Perché a questo punto, dopo un centinaio di isole greche e quasi 10.000 miglia di mare sotto la chiglia, i ricordi si sovrappongono, si mescolano, si confondono in una miscela che a ricrearla in laboratorio potresti diventare ricco. Per fortuna non si può. Per fortuna ci sono cose che non possono essere digitalizzate, esperienze che non possono essere virtuali, conoscenze che si fanno con la pelle oltre che con gli occhi e il cuore.
Il nostro Peloponneso di ritorno è veloce ma intenso. La prima tappa a Porto Kayo, splendido porto naturale, ex covo dei pirati dove aspettiamo alla fonda il nostro amico Roberto che è più lento di noi a partire e anche a navigare…sebbene più comodo. Passiamo una bella serata insieme a bordo di P’acá y p’allá in una cornice che definire incantata è dire poco. 
Ci dividiamo una buona bottiglia di bianco e una pastasciutta che sa di Italia anche se gli ingredienti sono rigorosamente greci. E parliamo di isole, in un dialogo che può essere infinito. Le giornate si accorciano e ceniamo che è già buio mentre, tutto intorno a noi, le costruzioni sulla montagna, essenziali, ben nascoste e così rigorosamente rispettose della storia piratesca del luogo, si accendono di piccole luci.
Abbiamo già fatto, prima del tramonto, la passeggiata lungo il viottolo fino alla chiesa a guardare il mare di fuori, i disegni che il vento lascia sull’acqua blu e profonda, i colori vivi della terra che ricordano l’Irlanda. E a rilevare la posizione di Roberto per stimare il momento di buttare la pasta. 
Quel che resta addosso di Porto Kayo è il silenzio quasi spettrale, favorito dalla conformazione della terra alta e rocciosa che si incunea in un fiordo naturale. 
Un silenzio che acquista un’enfasi speciale per i naviganti che passano Capo Matapan, perennemente rafficato, esperienza sferzante di vento che tu vi giunga da nord o da sud. Ammaini le vele, entri nella baia e le raffiche diventano silenziose, presenti ma in sottofondo, sempre protagoniste ma più rispettosamente distanti, quasi si fosse in un flashback.
Perdiamo Roberto sulla via per Methoni, il nostro gioco d’anticipo ci è favorevole per superare un vento contrario improvviso a 10 miglia dal traguardo. Il nostro amico invece ripara a Koroni che noi vedremo da terra invogliati a non perderlo dai suoi racconti entusiasti e dagli inviti di Ada.
Methoni e il suo castello veneziano con torre ottomana offrono uno scenario grandioso e solenne, intatto nell’essere in rovina, in perenne conflitto di razze e di stili.  Ti colpisce la sua imponenza, la bellezza del ponte d’accesso ad archi, il mix di rovine con la terra che avanza, i fiori viola e gialli che crescono tra le pietre, selvaggi e prepotenti.  La torre ottagonale si erge direttamente sull’acqua ed è quasi perfettamente integra. 
Sembra guardare il vicino castello con una certa poco gradevole superiorità, mi sembra di sentirla parlare: “Guarda come ti porti male gli anni, come ti lasci sopraffare dal tempo, dalla natura, dalle condizioni meteo. Mentre io qui, in perenne cura di talassoterapia, ho un posto in prima fila. Rappresento il traguardo per chi viene in visita, mentre tu sei solo un passaggio”. Ecco, io scelgo il castello. Sarà perché è veneziano, o forse perché regala momenti di incommensurabile silenzio. Sarà la sua capacità di convivenza pacifica con la natura o il suo quieto, perenne, saggio saper coordinare le nuvole nel cielo con una coreografia da teatro dell’Opera.
Non è necessario schierarsi, Castello e Torre si integrano alla perfezione, l’uno completa l’altro. Non avrei parteggiato per l’uno, se solo l’altra non si fosse fatta sorprendere in un momento di antipatica supponenza. Ma è stato solo un momento e probabilmente solo per me. Tanto basta, però.
A Pylos torniamo per tanti motivi. C’è il nostro amico farmacista da ritrovare, ci sono Marty e Linda sul loro Pleiades in rotta per le Baleari dopo un anno e mezzo di Egeo, c’è la voglia di prendere una macchina per andare un po’ in giro.
Individuiamo subito il Pleiades, ormeggiato alla darsena, ci avviciniamo e salutiamo Marty e Linda ripromettendoci di bere qualcosa insieme in giornata. Purtroppo non ci riusciremo e la mattina dopo li vedremo veleggiare nel golfo di Navarino diretti verso le Ionie. In effetti era strano il loro stare alla darsena - spesso afflitta da una risacca fastidiosa - evidentemente erano lì, ai blocchi di partenza, in procinto di partire. Noi invece raggiungiamo il porto e guadagnamo il nostro solito posto all’inglese sotto il faro d’ingresso. 
Ad aiutarci all’ormeggio, un simpatico greco di mezza età, poco pratico con le cime ma disponibile e attento. Si propone di esserci di aiuto in tutto: non c’è allaccio elettrico ma se vogliamo ci fa spostare dall’altra parte del porto dove, con una lunga prolunga, l’elettricità arriva (forse da casa sua). Non c’è acqua ma se vogliamo può farla arrivare con l’autobotte così come il rifornimento carburante. Può darci un passaggio in motorino all’autorità portuale e, se ci serve la spesa, può andare a farla lui. A noi, però, non serve nulla. Gli diamo una piccola mancia per l’aiuto ed è felicemente sorpreso. Questo innesca in lui la voglia di essere utile e continua, così, a partorire proposte d’aiuto in ogni direzione possibile. Con grande dignità, offre una disponibilità di valore ben superiore alle mance conquistate. Quest’uomo affronta la crisi in modo intelligente, senza lamentarsi inutilmente di qualcosa che la lagnanza non può cambiare. 
Il Porto di Pylos è un rifugio confortevole e amico. Non ci sono i soldi per completare le colonnine dei servizi e da anni ci sono solo scheletri di cavi elettrici posati inutilmente. Ma alcuni corpi morti ti permettono di tenere distante la barca dal molo e con ogni vento ti senti tranquillo. All’Autorità portuale sono, come sempre, gentili e disponibili. Non ti chiedono soldi per il passaggio e ti offrono cordialità e simpatia. Quando vedono dal Dekpa che siamo ormai degli habitué, ci dicono in greco qualcosa che equivale al nostro 100-di-questi-giorni, augurandosi il nostro ritorno.
Roberto ci raggiunge al porto di Pilos e andiamo a cena insieme nella plateia, da Gregoris, uno dei migliori ristoranti di tutta la nostra Grecia. Facciamo una cena a base di orektikà (antipasti), prendendo tanti piatti diversi da dividere tra noi. Una di quelle cose che in 3 riesce meglio che in 2 e, come dice Roberto, assai meglio che da soli. A tavola arriva una brocca di Rosé del Peloponneso e il nostro amico farmacista che ce la offre. Lo troviamo più teso dell’anno scorso, preoccupato dalla situazione del Paese che è ormai più che grave, visto che le nuove leggi varate oggi ridisegnano i diritti ai farmaci salvavita per malati cronici e alle terapie antidolore. 
E si capisce che il nuovo disegno non è a favore di un benessere e di una serenità per chi ha conti in sospeso con la salute, quasi che il dolore da alleviare fosse qualcosa di superfluo. È a Pylos, come sempre, che registriamo per la prima volta la misura della crisi. Qui sembra più tangibile, più reale. Atene sembra incredibilmente vicina, della Merkel si sente quasi la voce e il suo orribile accento.
Salutiamo Roberto che prende la via più interna e va verso Katakolon per fare una gita ad Olimpia. Conoscendo la sua interpretazione di “partenza all’alba”, ci riproponiamo di aiutarlo a mollare gli ormeggi ma stavolta ci sorprende e alle 7 è davvero già partito. Le nostre strade si dividono, noi scegliamo di tornar per isole toccando Zante e poi Cefalonia.
Prima della partenza, come ci eravamo ripromessi, prendiamo una macchina a noleggio e facciamo un po’ di Peloponneso da terra. L’impresa, come ricordavamo da un viaggio in macchina di 20 anni fa, non è affatto facile: le strade si inerpicano su tornanti e sono lunghe e lente.
Pylos – Koroni è uno dei pochi tratti che richiede più tempo su strada che su mare. Ne vale la pena. Koroni è un borgo molto piacevole con un castello che ospita un convento, alcune abitazioni e un cimitero. È un altro luogo magico del Peloponneso anche se meno imponente e suggestivo di Methoni. Più a misura d’uomo, diciamo, e di varia dolce umanità. Bordo mare, ristoranti e bar orlano un piccolo approdo per pescatori ed una rada sicura. Segnamo Koroni sul libro delle tappe possibili in Peloponneso.
Subito a nord del Golfo di Navarino, c’è la splendida spiaggia di Voidokilia, una particolare baia a forma di Omega greco, orlata di alte dune di sabbia che svelano in alto il Paleokastro (vecchio castello). È domenica quando ci andiamo - in auto perché la particolare conformazione della baia rende assai difficile l’ancoraggio in rada – e sulla spiaggia i pochi turisti del fuori stagione si confondono con gli abitanti di Pylos che vengono qui a godersi un mare spettacolare nel giorno di festa. La quantità di sabbia, per noi abituati alle rade di ciottoli ben più frequenti in Grecia, è impressionante. Dorata, fine, abbondantissima. Risalire le dune è faticoso ma il panorama conforta della fatica. Dietro la spiaggia, la laguna di Gialova che è il paradiso del birdwatching. 
Sabbia d’oro, spiaggia semicircolare, dune di sabbia, castello avito, baia a forma di Omega gigante: tutto questo ha fatto diventare Voidokilia “una delle spiagge più belle del mondo” secondo il Times. Nella nostra personale classifica del bello, Voidokilia deve cedere il posto a molti altri luoghi, ma quel che possiamo dirvi è che “una delle spiagge più belle del mondo” non è stata intaccata e distorta dalla sua fama. Ha resistito all’urto del successo, memore della solennità di un luogo che è stato storicamente fondamentale nell’acquisita indipendenza greca dalla Turchia.
Il Peloponneso, ancora una volta, ci rapisce il cuore. Sarà dura in futuro scegliere altre vie di passaggio. Tornando in macchina verso Pylos, all’altezza di Methoni, le isolette di Shkiza e Sapientza ci guardano con rimprovero. Questa volta non siamo passati da lì, dovremo tornare.
Fosse stato per noi,  potevano risparmiarsi il canale di Corinto. A volte, ci si perde volentieri  tra le dita della terra che sfiorano il mare.

9 commenti:

  1. Grazie, bello come sempre.
    Di certo Murakami non avrà nulla da eccepire.
    Tra l'altro, se ti riferisci a "L'arte di correre", spiace far notare la solita orrida traduzione del titolo originale "What do we talk about when we talk about running", (volutamente simile al libro di Carver "What do we talk about when we talk about love" dato che Murakami è il traduttore di Carver in giapponese)...
    Baci di A.pprezzamento (per te, non per i traduttori di Murakami)

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  2. Eh sì, caro A. Gli italiani brillano per togliere poesia nei titoli. Più che nei libri, nei film. Il più clamoroso errore per me resta sempre quel "eternal sunshine of the spotless mind" orribilmente tradotto con "se mi lasci ti cancello". Roba da chiedersi che problema avesse il traduttore.

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  3. Ah, lo so... ma nei film è troppo facile, i traduttori dei titoli si sono sempre accaniti sulle pellicole straniere. Vogliamo invece parlare de "Il giovane Holden" che in origine era "The catcher in the rye"?
    Baci A.ttapirati

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  4. Bello poter leggere degli "Occhi della Repubblica" tra una citazione su Murakami o Salinger. Intanto ho scoperto un altro segreto del fotonauta: ombre crepuscolari. Si alza inderogabilmente all'alba ed al tramonto è immancabilmente a terra.
    Silverio

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  5. Intuizione corretta, Silverio. Ogni alba e ogni tramonto, la luce si abbassa e la macchina fotografica diventa protagonista. Escluso nei giorni di nebbia fitta che però in Egeo non se ne vedono molti.... Per la scesa a terra, approfitto per encomiare il fido bomby (il tender che è uno zodiac di 2 metri), mai in sciopero, per portare a terra il fotografo con qualsiasi mare e qualsiasi vento...

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  6. .... E poi ci son le Ionie... Grazie mia coscienza, oggi scrivo, promesso!

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  7. Grazie a te cara Francesca di elagerirci ogni tanto questi sprazzi di luce!

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