venerdì 22 giugno 2018

Dei porti, dei pensieri sparsi e delle genti diverse.

Spiros, faccia pulita, gentilezza un po’ rude ma vera che viene dall’anima e da una educazione valoriale più che dalla vocazione turistica del suo mestiere di addetto agli ormeggi di Chania.
Spiros che, anche lui come tanti greci, si fa brillare gli occhi al sentire che siamo di Roma, città della sua luna di miele e non ho cuore di dirgli che non è più la stessa, la città che sarà sempre eterna ma che anche lei, come gli dei, un po’ di pene  si vede che le deve soffrire.
“Sono incredibili i romani” mi dice Spiros che si è sposato pochi anni fa, non nel 1950, “chiedi l’indicazione di una strada e smettono di fare quello che stanno facendo per accompagnarti là dove devi andare”.
Buffo.
È una delle esemplificazioni che uso più spesso per descrivere i greci.  Eppure, mai l’userei per descrivere i romani o comunque gli italiani. Forse i napoletani, sicuramente i calabresi, ma tutti gli altri certamente no.
Si vedono cose diverse con gli occhi forestieri e quasi sempre si vedono cose migliori.
D’altro canto, quando io dico questa cosa ai greci, vedo sui loro volti lo stesso mezzo sorriso perplesso che dedico a Spiros. “Ma chi? Noi?  Gentili? Ma quando mai…”  e, esattamente come faccio io con Spiros, loro non smentiscono se non con quel mezzo sorriso.
Piccoli, inspiegabili barlumi residui di orgoglio patriottico.
Ma un fatto è certo: gli stranieri possono restituirci un'immagine più bella di noi stessi. Ovunque, in ogni luogo, nel sud e nel nord di tutto il mondo.
È un patrimonio unico e imperdibile, lo straniero.
L’amaro, dietro a questi pensieri confortanti, viene dalla cronaca politica. Vista da qui, dal mio paradiso di armonia ellenica, la situazione italiana mi sembra una Babele disgustosa.
Slogan banali e insopportabili si inseguono sulla rete, si ripetono ben oltre la noia ma, quel che è peggio, accompagnano  e sottolineano provvedimenti di una gravità inaudita.
Quei signori del nuovo governo, sorretti da braccia festanti a mimare un ripetitivo “lasciamoli lavorare!”,  elargiscono pillole di veleno capaci di dare soddisfazione a un odio a cui non possiamo e non dobbiamo abituarci. 
Sono in uno dei porti più belli del Mediterraneo, quando leggo che il neo Ministro degli interni chiude i porti italiani alle Ong e nello specifico alla nave Aquarius che trasporta 629 migranti.
Non una dichiarazione di intenti ma un provvedimento. Non una “questione migranti“ da trattare a un tavolo dei potenti ma dei migranti veri in carne e ossa, costretti a restare in un mare ostile molti giorni di più del dovuto.
Lo stesso giorno, in tema assai più leggero, parlo con Spiros del porto di Chania. 
“Tutti vogliono venire qui, costa poco, ci sono i corpi morti, è una città bellissima e base di escursioni” lo dice come un dato di fatto e continua contrito “in estate abbiamo messo una regola, non si può stare più di 15 giorni consecutivi, a me dispiace ma i posti son pochi, un porto è un riparo, non può essere sempre pieno, ci deve essere ricambio”
Glielo leggo negli occhi che vorrebbe un porto più grande, che non vorrebbe mai dire a nessuno che non c’è posto perché un porto deve avere posto.

L'antico porto d'impronta veneziana di Chania, Creta.
 UN PORTO E’ UN RIPARO. Per tutti quelli che stanno per mare, anche per quelli di cui parla Spiros: normali naviganti come noi con problemi non problemi, fame che non è fame, sete che non è sete, stanchezza che non è stanchezza.  
Un porto è un riparo, deve accogliere, sempre, perché il mare non è terra, almeno per l’uomo che non è un pesce. 
Un porto non è una frontiera, è casa, è terra, è salvezza, è conforto.
Lo ha capito Spiros. Cioè no, Spiros lo sa da sempre, lo dà per scontato.
Che è successo, invece, a noi?
Non solo a Salvini, su lui non ho mai avuto speranze, che è successo a quei tanti italiani che vedo esultare per la chiusura dei porti? Tra loro, molti son uomini di mare, no forse no, son uomini che vanno per mare, diciamo.
Chiunque viaggi sa che non è possibile chiudere le frontiere, non si può fermare quel bisogno di viaggiare e tanto meno il bisogno di fuggire. A maggior ragione quando la fuga è sopravvivenza.
Non è solo solidarietà, è arricchimento. Non c’è cultura chiusi in se stessi, non c’è crescita, non c’è evoluzione.  
Ho l'impressione che in Italia stia avvenendo qualcosa di diverso rispetto ad altrove, è innegabile purtroppo come questi provvedimenti xenofobi stiano aumentando il consenso di chi li annuncia. Una sorta di folla animata da odio, assetata di vendetta che individua il nemico in quell’unico che ci guarda pensando che valiamo qualcosa.
Cacciamo via lo straniero, teniamoci la nostra roba, quella che abbiamo faticato a costruire, chiudiamoci in noi stessi con la scusa di preservare la nostra cultura. E intanto quella cultura la buttiamo al vento. Con la scusa di preservare tradizioni di cui ci importa solo nella misura in cui sentiamo che vengono minacciate dalla contaminazione.
Perché? Perché sono cattivi, rubano, puzzano, frugano nell’immondizia, lavano i loro panni nelle nostre fontane.
Questo, più o meno, il sentimento italiano che leggo e le motivazioni che mi vengono date.
Poche le voci che contrastano questa tendenza, poche, sempre più stanche, sempre più allibite. Unisco la mia. Ma per la prima volta penso che forse è inutile, forse è la Storia che fa il suo corso, forse bisogna passare per questo orrore per poi rinascere.
Non lo dico a Spiros che abbiamo chiuso i porti ai migranti. Non perché penso che possa giudicare male i nostri governanti ma perché temo la domanda “E voi? Che fate? Che dicono gli italiani?”
E che gli rispondo a Spiros? Che la crisi economica, le tasse e la disoccupazione ci hanno fatto diventare così? E se la nostra crisi ci porta a odiare, la loro ben più grave cosa dovrebbe fargli fare?
No, non glielo dico e spero di partire prima che lo legga da qualche parte.
Perché anche se grazie a Spiros, d’ora in poi mi sforzerò di guardare ai miei concittadini con i suoi occhi da forestiero e di cogliere quella gentilezza d’animo che io non so più vedere, c’è una cosa che dentro di me so che si deve dire degli italiani e non si può dire dei greci.
La nostra gente sembra proprio avere la vocazione per l’essere forte con i deboli e debole con i forti. E questo governo, altro non sta facendo, che carezzare questa vocazione.
Il porto è un riparo. Tra tanti slogan, non potremmo usare questo?

Mentre cerco di coniugare il bello che vedo qui con il brutto che arriva da casa, mi arriva un messaggio dalla mia amica Francesca: la lettera con cui Medici senza Frontiere ringrazia suo marito Ugo Pugliese, sindaco di Crotone per avere offerto il porto della sua città come possibile approdo alla Nave Aquarius. Come lui, altri sindaci, apprendo dopo. Se non sbaglio tutti del sud.
Il porto è un riparo. Anche per noi italiani. O almeno per quelli che conoscono
 il mare.

lunedì 11 giugno 2018

Routine.

Kapsali, Kithera, al confine tra Ionio e Egeo.
Ogni tanto, sempre più raramente, mi guardo indietro, più indietro di ieri, alla vita di prima. 
Che ormai, diamine, risale a quasi 10 anni fa. 
Ricordo a fatica un sacco di cose - eh sì, la libertà regala ossigeno ma disallena il cervello ai riepiloghi e ai punti della situazione e non ci sono più agende in grado di aiutarti! - ho perso la scansione temporale degli eventi e con lei tanti nomi, tante facce e anche l’esatto svolgersi di alcuni avvenimenti. Certi aneddoti che per anni ho ricordato e raccontato come esemplari di qualche principio o rilevanti per l’affermazione di alcuni valori, oggi mi sembrano insignificanti. 
E non so. 
Se è la mia memoria che ha perso i momenti salienti della storia o se la storia di suo non era destinata a conservare un senso. 
Ho percorso settimane lavorative per più di 20 anni della mia vita e, sebbene avessi un lavoro particolarmente lontano dalla ripetitività dei giorni, ero completamente assorbita in una sorta di routine: giorni lenti, giorni frenetici, risate, litigate, colpi di testa e compromessi, notti al lavoro, motorino, taxi, treni, aerei, diverse città, tutto a disegnare una routine scandita sempre da quel rassicurante accredito a fine mese che generosi committenti consideravano giusto controvalore delle mie fatiche. 
Poi, quando era giunto il momento di faticare un po’ di meno e raccogliere un po’ di più, decisi - con quello che avrei capito essere il mio pessimo senso degli affari - che era il momento di interrompere quella routine, di buttarla via per sempre, di mischiare le carte e di tirare fuori giorni a caso dal calendario.
Bellissimo, inebriante, sconvolgente. Ricordo ancora quello stupore infinito delle ore che passavano senza essere scandite da fatti ma solo dagli elementi della natura che cambiavano colore alle cose. 
Ora, anche questa vita è diventata routine. Mi preparo a partire per poi prepararmi a tornare e in questo tempo di mezzo navigo. Il contesto, da 8 anni, è lo stesso, la stessa Grecia, sempre diversa e sempre uguale. 
Isole a cui tornare hanno sostituito isole da scoprire. Rotte già fatte da rinavigare, facce conosciute in questa nuova vita da ritrovare e su cui cogliere il disegno del tempo che passa. 
E ogni volta che mi fermo in un luogo, penso che sarà qui che vivrò, quando avremo smesso di navigare. Ma non ho ancora deciso, così rimbalzo dall’ovest all’est della mia nuova routine. 
Consulta il meteo, leva l’ancora, decidi la rotta, alza le vele, ammaina le vele, scegli dove fermarti, cerca la chiazza di sabbia giusta, butta l’ancora e chiedi alla risacca di risparmiarti. E nel frattempo, cucina, nuota, scendi a terra a comprare qualcosa, leggi, telefona ma non troppo spesso che se no quando non hai campo telefonico a casa si preoccupano, parla col vento perché prima o poi ci riesci a dirgli “ora basta” e lui cala, parla col cielo perché è il cielo che decide cosa faranno vento e mare e, almeno qui, non devi preoccuparti di saltare livelli gerarchici. 
La vita diventa, ritorna ad essere, un lavoro da fare. Solo che nessuno ti paga per farlo.
Routine. 
Poi la routine si ferma, per un attimo, per un giorno soltanto. E non importa dove sei o se il posto dove sei ha qualcosa di speciale in un mondo che di per sé è sempre speciale. 
Metti insieme un mix di ingredienti che ti riportano lo stupore bambino dei primi tempi. 
La rada di Kapsali tutta per te, una brezza tardo-primaverile, il mare calmo ma non del tutto a ricordarti che è mare, la disposizione ad anfiteatro della riva di una località turistica nel suo sonnolento fuori stagione, un buon libro da leggere e la voce di Maria Bethânia a basso volume in pozzetto. 

E qualcosa da dire. 
Perché non esiste routine quando hai qualcosa da dire.