mercoledì 31 luglio 2013

Ritorno a Psarà e Antipsarà. Il già noto porta all'ozio e alla riflessione.

P'acá y p'allá a Psili Bay - Antipsarà
Lasciamo Ay Stratis e iniziamo la nostra veloce discesa verso sud. Perdiamo subito e facilmente terreno, spinti dal vento con una gentile sollecitudine. Dopo una bella navigazione in cui, se non fossimo stati pigri, avremmo potuto issare il gennaker, arriviamo in vista di Psara. Rinforza a 30 nodi e siamo lieti di non aver il gen a riva. 
Psara e Antipsara. Le guardo e confermo a me stessa che sono due delle gemme più preziose dell'Egeo. 
Se il ritorno in un luogo già visto ha il sapore dolce del ritrovare casa, pone nello stesso tempo un piccolo grande problema: cosa posso dirvi che io non vi abbia già raccontato? Il rischio di ripetersi - o peggio ancora di contraddirsi - è alto. 
Arrivo a Antipsarà con 30 nodi
Di nuovo c'è che quest'anno abbiamo dato priorità alla piccola di casa, la selvaggia e ventosa Antipsara. Due giorni in rada nella splendida baia di Psili. E' il 30 luglio è non passa nessuno. La rada è sicura, il fondale è ottimo, si brandeggia un po' e il vento, che a Antipsara soffia con 5/6 nodi di più che a Psara, ti strilla bene nelle orecchie, ma davvero non so spiegarmi perché queste situazioni qui non le ami nessuno. Siamo in zona con un mese di anticipo rispetto allo scorso anno. "Ad agosto ci sarà gente" avevamo detto. E invece no, Psara, e ancor più Antipsara, restano una terra incontaminata, sospesa nel tempo, in attesa di essere scoperta.
L'isola di Psarà vista dal monte di Antipsarà
In porto a Psarà ci andiamo solo, dopo un periplo dell'isola e una nuova incetta di sassi special edition in un posto segreto, per ritrovare Luciano e Piazza Grande: le nostre strade tornano a incrociarsi a più di un  mese dall'ultimo saluto. A bordo con Luciano, due amici. Lui, un altro Luciano, scopro dopo pochi minuti che è una mia vecchia conoscenza. Era un cliente della mia vita pregressa da pubblicitaria. Fa impressione ritrovarlo qui, in the middle of nowhere, a distanza di 15 anni. Ricordo la sua voce, i suoi commenti gentili in riunione, il suo nome dopo "Alla cortese attenzione di" in testa ai fax che gli mandavo. Le mail erano ancora roba da amministrare con cautela, o forse non c'erano ancora. Una piacevole serata insieme, la promessa di una chiacchierata l'indomani e invece la nostra partenza in sordina poco dopo l'alba per cambiamento delle previsioni meteo.
La duna di sabbia sulla costa sud di Antipsarà
Non voglio dirvi altro di Psara. Perché la sensazione che ho provato a rivederla è la fotocopia sbiadita di quel che ho già vissuto. Per chi vuole, può rileggerla in questo flashback (link Psarà 2012)
Approfitto invece di questo spazio, per una piccola riflessione che da giorni si muoveva nelle stanze spoglie da incombenze del mio cervello.
Una riflessione che ha preso spunto da una conversazione virtuale tra Luigi e Stefano, due colleghi lungo-naviganti. Gli amici condividevano fra loro l'opportunità di privilegiare soste lunghe a quelle brevi per comprendere bene i posti e la gente, sentirsi uno del luogo e non farsi guardare come un turista ma come uno di loro. Premesso che condivido in parte tale spirito, ho sentito però un piccolo tarlo farsi strada dentro di me. Quella parola "turista" così implicitamente considerata in antitesi con la più nobile parola "viaggiatore".
Psili bay e l'isoletta di Kato Nisi
Di rado, quando un tarlo si muove in me, taccio. No, siamo onesti, ben più di rado che di rado. Diciamo che in famiglia possono paragonare il mio tacere a un evento sporadico come l'eclissi totale di sole. Ma tacqui, non intervenni. Segno non tanto della mia gentilezza, quanto del fatto che il tarlo dovevo metabolizzarlo e approfondirlo. 
Il problema non è nel termine "turista", né tantomeno nel suo significato originario che è estremamente vicino a quello di "viaggiatore". Il guaio, come sempre, lo ha compiuto l'uomo contemporaneo conferendo a "turista" un'accezione denigratoria da cui prendere le distanze. 
Perché, prima ancora del bisogno di esprimere noi stessi, viene l'esigenza di distinguerci dagli altri. Una sciocca attitudine che rivela tutta la nostra fragilità. Creiamo dei cliché e ci rassicuriamo l'un l'altro che - eccezionalmente - noi non ne facciamo parte. Sia chiaro che non voglio esimermi da questa umana debolezza. L'ho fatto anche io, più volte e per semplificazione, di descrivere qualcosa come turistico prendendone, più o meno esplicitamente,  le distanze. 
Credo solo che sia giusto essere spietatamente sinceri. 
Per cui, amici naviganti o viaggiatori in genere: smettiamola di illuderci di non essere turisti agli occhi degli aborigeni. È così che ci vedono e hanno ragione. Siamo turisti per due principali motivi. Non è quello il nostro luogo di nascita e la nostra permanenza in quel luogo significa portare, anche in piccolo, benessere alla comunità locale senza togliere loro risorse. Spendiamo poco, è vero, ma spendiamo. E non siamo solo turisti ma potenziale volano di ulteriore turismo. Non siete d'accordo? Ne volete una dimostrazione? Provate a dire ai vostri amici autoctoni che intendete avviare a casa loro un'attività professionale in diretta concorrenza. Vedrete che vi vorranno un po' meno bene. Ed è sacrosantamente giusto che sia così. Possiamo fermarci un giorno, 10, un mese o un anno in un luogo ma saremo sempre stranieri. 
Consoliamoci: l'essenza stessa del viaggiatore e quella di uscire dal noto e dal quotidiano. Di aver sempre voglia di ripartire. Se facciamo diventare casa un luogo straniero, perdiamo la capacità di stupirci e siamo meno in grado di cogliere le peculiarità.
Ma tant'è, il cliché esiste e tanto vale cercare di capirlo e circostanziarlo. Dubito che alla domanda "Sei un turista o un viaggiatore?" qualcuno propenda per la prima. La verita è che ognuno di noi si costruisce le definizioni a propria immagine e somiglianza. Lo faccio anche io, guardate: La differenza tra turista e viaggiatore? Il primo ha un programma, una meta, dei tempi, una rotta. Il secondo lascia che sia la strada a suggerirgli il proseguimento del viaggio. Il primo ha delle aspettative e un metro di giudizio con cui poi, una volta terminato il viaggio, stila una classifica e esprime giudizi in grado di distruggere luoghi. (Quanti ingiusti fallimenti sono figli di quella mostruosità di trip advisor?)
Il secondo non si aspetta nulla, al posto del giudizio, porta nello zaino la curiosità. E quasi sempre dà il merito del bello alle persone e ai luoghi che incontra e le colpe del brutto al proprio stato d'animo. 
Visto? Mi sono costruita l'alibi per definirmi un viaggiatore.

P'acá y p'allá incastonata tra Antipsarà, Kato Nisi e Mesiako
Dovremmo invece, secondo me, smetterla con lo snobistico atteggiamento - morettiana memoria - di gloriarci di far parte di una minoranza. Ma, soprattutto, smettiamo di cercare la nostra individualità negli occhi con cui ci guardano gli altri, impariamo a conoscerci da soli senza paura di scoprire in noi tratti comuni e non originali. E, se possibile, mettiamo semplicemente gentilezza e generosità nel nostro sguardo. Innamoriamoci dei luoghi che visitiamo e raccontiamoli con spudorata faziosità. 
Ché, diciamocelo, l'obiettività al giorno d'oggi è un valore decisamente sopravvalutato.

sabato 27 luglio 2013

Ay Stratis. L'isola che non c'è.

Veduta  dal cimitero di Ay Stratis
Da quando siamo partiti 3 anni fa e abbiamo scelto il mare come nostra prima casa, abbiamo seguito solo due princìpi per disegnare i nostri viaggi: Il Caso e la Meta.
Apparentemente, le due cose sono in contrasto, il primo figlio di irrazionalità e disordine, la seconda di determinazione e calcolo. Ma non è forse dal conflitto tra opposti che l'intero universo prese vita? Non è forse dal contrasto e dal dissenso che nascono le idee migliori? 
P'acá y p'allá a Ormos Pissa, costa orientale
Il Caso. I nostri viaggi non sono mai rotte precise ma solo accenni di direzione. In inverno, ci limitiamo a guardare la carta e a segnare una linea approssimativa che blandamente tenga conto delle stagioni e del favore dei venti. La nostra rotta stimata è un segno grafico, più che una rotta. E non è mai una promessa ma solo un'intenzione. È il segno ad affascinarci, l'armonia del percorso. Volutamente non approfondiamo, diamo un'occhiata ma non studiamo attentamente i pezzi di terra che quella linea tocca. Preferiamo, quando possibile, la sorpresa alle conferme e, soprattutto, crediamo che questo tipo di ignoranza conservi l'incanto e ci preservi da delusioni. 
In genere, consultiamo il portolano solo quando siamo arrivati in prossimità dei luoghi. Fu grazie a questa abitudine, forse, che 2 anni fa affrontammo in piena stagione di Meltemi la costa sud di Creta, rotta che molti navigatori esperti ci definirono in seguito come temeraria e pericolosa.
barca da pesca a Tripiti, costa sud occidentale
Il portolano Imray recitava
"Attenzione. Con venti occidentali e settentrionali l'intera costa meridionale di Creta è investita da raffiche particolarmente intense dai rilievi più alti. Queste circostanze impongono una navigazione vigile, poiché i groppi di vento possono essere di violenza eccezionale. Se si deve costeggiare l'isola è buona norma mantenere una distanza minima di 5 miglia". Ma noi lo leggemmo mentre eravamo già a Gramvousa, la punta Nord ovest di Creta. Il richiamo delle sirene del sud era troppo forte. Le condizioni, stando vicino al luogo descritto, non ci sembravano così proibitive e l'unica alternativa, a quel punto, sarebbe stata quella di percorrere la costa nord di Creta che, con il suo carattere turistico e fortemente urbanizzato, era quanto di più lontano potevamo immaginare dalla nostra idea del peregrinare. 
Continuammo quindi sulla nostra linea e passammo quasi un mese sul pezzo di mare (e terra) più bello dei nostri viaggi. Da soli, non incontrammo nessuno, neanche un'altra barca lungo le 140 miglia della costa sud di Creta. Evidentemente, a differenza nostra, gli altri consultano i portolani prima di mollare gli ormeggi da casa. L'avessimo fatto, probabilmente non saremmo mai arrivati lì. 
Alonìtsi sulla costa settentrionale e l'isolotto di Ag. Asomati
La fortuna aiuta gli audaci (e un po' anche i superficiali): la navigazione fu splendida, le raffiche forti ma gestibili, gli ancoraggi in rada sicuri. La terra - deserta, selvatica, splendida - aveva gradito l'omaggio e ci aveva protetto, regalandoci anche qualche giorno di bonaccia. 
La gente del luogo, non abituata ad essere visitata da mare, ci veniva incontro. A nuoto, in canotto, sui barchini. Ogni sera i pescatori della rada in cui ci fermavamo venivano a mettere le reti tutt'intorno a noi, sperimentando una tecnica nuova. 
Il Caso, aiutato da un pizzico di superficialità, ci portò a Creta Sud e nel mar libico. Continuammo ad usarlo come principio.
L'altro principio è la Meta, dicevo. La meta non intesa come punto di arrivo, perché i nostri viaggi non hanno mai un punto di arrivo, tornano sempre a casa nelle acque dell'Argentario dove sia io che Giovanni siamo nati. Si tratta di una meta iconica, un punto in cui passare, una x che scopriamo, con quello sguardo superficiale e curioso alle carte, e che risponde sempre a una sola caratteristica: l'abitato remoto. 
Scogliere bianche ad Ormos Pissa
Un luogo vero e vivo ma lontano dalle rotte tradizionali, apparentemente difficile da raggiungere o non attrezzato per il turismo. Quei luoghi isolati ma autosufficienti, dove il tempo si è fermato e non ha fretta di andare avanti. Con questo stesso principio, quasi 30 anni fa ci facemmo portare a Agathonissi, un'isoletta del dodecaneso dove passava ogni 5 giorni solo un postale. Ci ospitò il pope dell'isola e barattammo un polpo pescato da Giovanni con qualche pomodoro. 
La Meta del primo viaggio di P'acá y p'allá fu Gavdos, nel mar libico, il punto più a sud d'Europa. L'anno scorso Psarà, piccola sporade orientale, satellite di Chios. La Meta non ci ha mai deluso, ci ha sempre regalato i giorni migliori del viaggio, la soddisfazione di essere arrivati dove altri non pensano di andare, l'armonia dell'incontro con anime splendide non corrotte dalle logiche del turismo.
Il porticciolo di Ay Stratis
L'accoglienza in questi luoghi è autentica, non dettata da interesse. Non dipendono dal turismo, gradiscono le visite ma non insistono perché tu rimanga. La Meta ci ha regalato tutto questo e la voglia di ritornarci. Ogni meta raggiunta resta sempre, nei nostri occhi, una meta a cui fare ritorno.
Quest'anno la Meta è Agios Efstratios, familiarmente detta Ay Stratis. Le carte della Navionics non la prevedono se non a un determinato ingrandimento. Fai uno zoom e all'improvviso compare dal nulla. Un errore del software forse, o un segnale subliminale per noi. La sua collocazione, in mezzo al mare, distante dalle altre isole, fuori dalle rotte anche per essere sosta tecnica, danno a Ay Stratis il curriculum giusto per essere la Meta di quest'anno. Ovvero quel punto x, l'unico a cui, per qualche via, vogliamo arrivare. Potevano cambiare tutti i programmi ma da Ay Stratis volevamo passare. 
Ed eccoci qui. Ogni volta che raggiungiamo una Meta, gli dei ci fanno un regalo. Quest'anno il dono è un'amena bonaccia, ingentilita da una brezza termica, in un punto che di norma è spazzato da venti di burrasca. Che bello poter fare il periplo di un'isola, scorrere il suo lato più spettacolare che è quasi sempre quello esposto ai venti dominanti e, addirittura, fermarsi in rada per la notte sulla costa nord aperta ai venti del I e IV quadrante. 
Ay Stratis è evitata dai naviganti anche in virtù del fatto che apparentemente non ha ripari ad eccezione del porto in cui, per barche dal pescaggio importante, c'è posto solo per 2.
Una nave crociera in perfetto sinc col tramonto. Omaggio a Ay Stratis?
Con le condizioni che troviamo noi, è ovviamente facile trovare ridosso, ma scorrendo la costa e saggiando gli ancoraggi, credo che Ay Stratis sia vittima di un pregiudizio: la forma particolare dell'isola, a punta nel suo versante sud, offre diverse baie protette sia sul versante ovest che sul versante est, nella parte meridionale. Che il meltemi tenda a Nord Est, come consuetudine, o giri a nord Ovest, sul lato opposto dell'isola ci sono, secondo noi, condizioni di ancoraggio sicuro anche con 30 nodi.
"Death Valley" in Alonìtsi
Mentre è sicuramente un'eccezione ancorare e pernottare lungo la costa di Alonìtsi, sul versante nord. Noi lo facciamo grazie al dono di Eolo che ha chiuso per noi tutti i venti in una bisaccia per 36 ore. A terra, una lunga spiaggia di sassolini scuri di lava, una roccia calcarea che ricorda Procida e una grande e abbondante duna di sabbia chiara, costellata di arbusti simili ai lecci. 
Abitata solo da capre timorose che al nostro scendere a terra fuggono sulla roccia. 
Natura morta ad Alonìtsi
Dietro la duna, la sabbia assume una conformazione da Death Valley, chiaro segno che durante l'inverno questa zona è allagata dalle acque pluviale o letto di un torrente stagionale, sabbie mobili pietrificate che circondano e imprigionano gli alberi. Sulla costa orientale, ci fermiamo a Pissa Bay, bellissimo angolo di sabbia e roccia. 
Completato il periplo dell'isola, andiamo in porto, dove troviamo una sola barca a vela ormeggiata all'inglese e un ampio spazio in testa di molo dove ci ormeggiamo noi.
Papere in porto
Viene subito a farci visita la famiglia di papere del luogo. Restano lì intorno, visibilmente affascinate dal nostro tender. C'è una colonnina con acqua e elettricità a disposizione ma non ne abbiamo bisogno. Ad Ay Stratis non c'è ripetitore internet per cui la nostra chiavetta cosmote non prende, ma c'è un wi fi aperto a tutti che funziona meravigliosamente, anche da sottocoperta. A dieci passi dal molo, la stazione di servizio con autobotte pronta a rifornirti. Intravvedo in un piccolo emporio anche i ricambi di Gas Greco e persino un paio di Camping Gas. Vale a dire che nel punto più sperduto dell'Egeo hai a portata di mano tutte quelle cose che in isole grandi e battute dal turismo charter impieghi tempo e fatica a trovare. 
Peccato non aver bisogno di nulla.  
L'Eolis e P'acá y p'allá al molo di Ay Stratis
L'altra barca a vela se ne va e arriva al suo posto un traghetto che somiglia a quello che collega Psarà a Chios. Un battello che ti chiedi come possa navigare, più alto che largo, più ruggine che ferro. Di quelli che ogni tanto arrivano, ogni tanto no. Vederlo entrare a retromarcia, passando a due metri da  P'acá y p'allá e sistemandosi all'inglese fa una certa impressione.
A Ay Stratis è tutto lì, intorno al porticciolo, il paese antico arroccato sul monte è stato interamente distrutto dal terremoto del 1968. Si sono salvati solo una parte della scuola, una decina di case e il cimitero.

Il cimitero di Ay Stratis
Un cimitero molto particolare con le mura di cinta che fanno un cerchio perfetto e molto poco affollato. Una decina di tombe, ben spaziate tra loro. Accanto alla tomba di Kostas, morto nel 2012 a 85 anni c'è un posto vuoto, starà aspettando sua moglie. Ecco, morire qui è un altro morire. Una location splendida per un cimitero, quando si dice "è andato a stare in un posto migliore"  nel caso di Ay Stratis è vero anche se non credi in Dio. Le ossa son già in un posto migliore, ovunque sia andata a finire l'anima.
In attesa del traghetto da Lavrion
Sulla parte esterna della nostra porzione di molo, arriva il traghetto per Lavrio. Una decina di minuti prima arrivano tutti gli abitanti del paese, 2 o 3 in macchina, qualcuno in motorino o in bicicletta, mamme a bambini a piedi. È sempre una festa: non si viene per partire ma per ricevere e per accogliere, per ritirare qualcosa che arriva dal continente, o anche semplicemente per salutare la vita che viene dal mare e rendere omaggio alla manovra della nave.
Ay Stratis, prima del terremoto e prima del porto.
Ay Stratis fu campo d'esilio politico tra il 1928 e il 1963. Il piccolo museo della democrazia, allestito in quella che era la scuola dell'isola,  ne racconta la storia con un percorso fotografico. Le chiavi del museo, il cui ingresso è gratuito, sono affidate a una signora che abita nella casa di fronte. Lei siede a un tavolino su strada con un amica e un piattino di mandorle (prese dallo stesso albero da cui penso le abbiamo colte noi qualche minuto prima) e quando passa qualcuno (un paio di persone alla settimana, credo) chiede "Mouseio? Né Né Anoikto!", prende le chiavi e viene a aprirti la porta. Un museo casalingo insomma. 
una delle poche case nello stile d'epoca. Salvata dal terremoto.
Alla taverna siedono tutti i pescatori dell'isola, è abbastanza anomalo, li trovi spesso al bar per un ouzo ma i pescatori di solito mangiano a casa. Oggi però  è un giorno speciale, nella piazza davanti al comune c'è uno spettacolo di musica e sirtaki che va avanti tutta la notte. Incontriamo lì il nostro amico pasticcere da cui abbiamo comprato dei dolcetti e che, sentendo che avevamo bisogno di pane, ci ha ceduto il suo filone integrale. "Italiani-greci, una faccia una razza" ci dice, come sempre. E poi ci racconta di Mario con cui ha lavorato per 3 anni a Sidney, Australia, in una fattoria. "I will never forget Mario, a good man. Italians good people" ci dice visibilmente commosso.

Ay Stratis, con il suo ritmo indifferente all'incedere del mondo, con la sua gente amichevole, calorosa, disinteressata, ci resta nel cuore. Anche stavolta, la Meta non ci ha deluso. 

giovedì 25 luglio 2013

Limnos e le origini del maschicidio.

Capo Mourtzeflos, estrema punta a Nord Ovest di Limnos
Leggenda vuole - e ormai ben sappiamo che le leggende greche hanno sempre un fondo di verità - che nell'isola di  Limnos si perpetrò un efferato caso di maschicidio di massa, il cosiddetto "Crimine delle Lemnie". Fu un gesto passionale e razionale insieme: le donne di Limnos, infatti, non si limitarono a uccidere i propri mariti fedifraghi, ma eliminarono radicalmente dall'isola la razza maschile. La drastica decisione aveva un suo perché: evitare il rischio di una vendetta di genere da parte dei sopravvissuti. "Non ne rimanga neanche uno" dissero le femmine avvelenate "sia mai che il mondo si capovolga e siano gli uomini a uccidere le donne"
Se oggi da lassù le donne di Limnos seguissero l'attualità e leggessero la cronaca nera, potremmo sentirle mormorare "O tempora o mores", anche se ritengo improbabile che si esprimano in latino.
Costa sud di Limnos
Che avevano fatto mai quei poveri uomini? Il solito, avevano tradito. Ma, a mio modesto parere, non si poteva certo dar loro l'intera responsabilità. Essi erano, in realtà, semplici pedine di una guerra tra donne. O meglio tra donne e la dea delle dee: Afrodite. Sappiamo bene quanto l'icona per antonomasia della bellezza fosse capricciosa, vendicativa e risoluta. Le donne di Limnos si rifiutarono di adorarla e la dea greca non era proprio incline al facile perdono. Il sortilegio fu quanto di più crudele si possa immaginare per una donna e per l'uomo che le vive accanto: la puzza. 
Eh sì, le donne di Limnos iniziarono a puzzare e un sortilegio non è qualcosa che puoi combattere con un presidio medico o erboristico. Non c'era nulla da fare: avevano da puzza'. L'aveva deciso la bella Afrodite e non c'era sapone o profumo che potesse ovviare al problema. Di conseguenza, i maschi isolani avevano ripudiato le mogli (potete dar loro torto?) ed erano andati a pescare altrove compagnia femminile. Senza allontanarsi troppo, si erano recati  nella vicina Tracia, avevano rapito un po' di schiave e se l'erano portate a casa.
Agios Nicholaos e la costa Sud Ovest
Le legittime compagne non gradirono e lo dimostrarono ampiamente. L'unico a salvarsi dal maschicidio fu il vecchio Taonte, re di Limnos, che la figlia Ipsipele gettò di nascosto in mare in una cassa. Taonte arrivò a  Sikinos e si rifece una vita con una Ninfa, probabilmente non affetta dal fetore infernale.
L'anno dopo il delitto, a Limnos, arrivarono gli Argonauti che trovarono un'isola di sole femmine piuttosto compiacenti. Non so dirvi se il sortilegio di Afrodite fosse finito o se gli Argonauti avessero un serio problema di olfatto. So solo che si fermarono un anno a fare festini con le amabili signore. Quel che va capito è se il Vello d'oro di cui ripartirono alla ricerca fosse solo una gentile scusa per accomiatarsi.
Nel mito, il tema del cattivo odore di Limnos è comunque ricorrente: qui venne abbandonato Filottète colpito al piede da una ferita in putrefazione. Una Limnos che Sofocle racconta come sperduta, deserta ,"non calpestata da piede umano". 
Ad eccezione della sosta a Myrina, il porto principale, è così che appare a me. Addio verde rigoglioso dei pini e dei cipressi, addio ombra, terre idratate, ecco il regno desertico dei vulcani. L'isola di Efesto, non a caso, il dio del fuoco. Ecco la Grecia che amo, dove la terra è dura fatta di colline brulle, arse dal sole e dalla materia della terra stessa. Cicatrici di pietraia su una roccia di spine. Di rado appare un cespuglio, verdissimo, rannicchiato su se stesso, spicca sulla roccia secca e sembra chiedersi "come diavolo sono finito qui?". Terra arida ma fertile, come tutte le terre laviche. Quel che ora appare giallo e bruciato è macchia bassa e vigneti che in altre stagioni colorano quest'isola di un verde vivo, giovane che ogni anno nasce e muore. Per inciso.... Non vi è traccia di cattivo odore, la dea deve essere passata oltre.
Costa Ovest di Limnos
Situata storicamente in zona strategica per il controllo dei Dardanelli, Limnos è oggi un isola che si è fatta largo nell'Egeo. Un'isola di confine, remota, solitaria, indipendente. Per mare, praticamente nessuno. 
Arriviamo a Limnos dopo una bella e impegnativa navigazione di traverso e bolina. Il vento da ovest promesso dalle previsioni dura per dieci miglia dalla partenza dalla baia di Sikia sulla penisola di Sithonia in Calcidica. Tempo di arrivare al Monte Athos, da cui ci teniamo a debita distanza, ed ecco soffiare l'immaginabile Nord Est con onde strette e aggressive che arrivano direttamente dai Dardanelli. 
A vele spiegate nel porto di Myrina
"Scherzetto!" strilla il meltemi venendoci incontro, iper-agitato come un ultrà che fa invasione di campo. 
Mi ricorda un giorno, da piccola, che persi la mamma nei meandri di un mercato rionale. Un momento di distrazione e la scoperta che il sedere che sto tenendo d'occhio e seguendo fedelmente non appartiene alla mia famiglia. Improvvisamente, il luogo che prima sembrava pacifico mi appare come sinistro, inquietante, rumoroso e spaventosamente privo della figura rassicurante della mia mamma. Nella mia testa e poi anche ad alta voce ripetevo il mantra che mi era stato insegnato "checca-tani-vale-buno-bossi-tité" che in teoria avrebbe dovuto equivalere al mio nome e indirizzo ma che in pratica mi faceva sembrare una piccola zingarella d'avanguardia.
Tutto intorno l'atmosfera risuonava di voci e frasi che per fortuna non comprendevo pienamente "Signo', vie' da treppalle che c'ha la roba bona", "Signore mie, quanto so' boni er pisello e la fava de Mario, venite a vede'"
Poi, come nei miracoli, ecco apparire all'orizzonte la sagoma familiare. Totalmente ignara della mia tragedia durata interminabili attimi, la mia mamma dissertava col sor Mario sul rapporto qualità/prezzo delle sue verdure. 
Ecco, così le corsi incontro, o meglio addosso: con la veemenza del Meltemi che ti cerca, pensa di averti perduto e finalmente ti ritrova. 
Il promontorio di Capo Mourtzeflos
E non è ancora nulla, lo so. L'anemometro non supera i 25 nodi, roba che in pieno regime estivo ti fa di solito dire "oggi è tranquillo, salpiamo". Ma le emozioni, si sa, sono nei contrasti. Dalla calma delle brezze termiche della Calcidica, questo del Meltemi mi sembra davvero un caloroso benvenuto. 
Con una mano di terzaroli alla randa si va bene, con velocità di 9 nodi di bolina. 
Sopravvento a noi, con bordo migliore del nostro, vediamo una vela più grande, naviga a motore con la randa e si vede che punta a raggiungerci, superarci, farci assaggiare la sua scia. Le prova tutte: spegne il motore e mette un genoa 140% al confronto del quale il nostro piccolo fiocco olimpico è un fazzoletto. Quando cala un po' il vento e alziamo tutta la randa, lo fa anche lui, ma per fare questa operazione ammaina il genoa e si mette prua al vento perdendo decisamente terreno. Nonostante il suo bordo sia migliore, lo vediamo arrancare, scarrocciare e poi scadere sottovento. Abbiamo dato una pista a un 55 piedi. Anche a distanza, percepisco il malumore a bordo della barca avversaria. Immagino il capitano giustificarsi con gli ospiti a cui aveva detto "La vedete quella barchetta laggiù, mo' ci divertiamo, guardate come le passiamo oltre"….
Un maggiolone (italiano) diventa installazione d'arte a Myrina
Nel frattempo, ci troviamo in rotta di collisione con un grande cargo proveniente da Sud Est. Navigando a vela, avremmo la precedenza, ma con le navi non si è mai sicuri che la pensino allo stesso modo. Mentre ragioniamo su quando eventualmente manovrare, ecco che il cargo compie una decisa deviazione, non solo per lasciarci passare ma anche per comunicarci che ci lascia precedenza. Non è cosa da poco, si fa una mezz'ora di onda al traverso per permettere a noi - e visto che c'è anche al competitivo illuso che ci segue - di mantenere la nostra rotta. Nulla di eccezionale, abbiamo pieno diritto, ma la manovra è talmente anticipata e abbondante che suona particolarmente cortese.
Raggiungiamo la punta Nord Ovest di Limnos e decidiamo di fermarci subito per una sosta a ridosso. Un breve e basso istmo di sabbia unisce il piccolo promontorio di Capo Mourtzeflos al resto dell'isola. 
P'acá y p'allá a Mourtzeflos
Deja vu di un'altra piccola isoletta dell'Egeo: Kounoupi, satellite di Astipalea. 
Nella baia una piccola barca da pesca a un gavitello,  ci ancoriamo vicino. Fungiamo da sveglia per il pescatore: è ora di gettare le reti, salpa, ci saluta e se ne va. Scendiamo sulla riva, tempestata di legni portati dal mare, tronchi e tavole sbiancate dal sale e deformate dall'acqua e dalla sabbia. Ci arrampichiamo sulla montagna, sento sotto le scarpe il rumore delle spine secche di cardo, il brecciolino, la polvere. Neanche un cespuglio. Il colore ocra della terra mi riempie gli occhi. Sono a casa.
Il porto di Myrina
Myrina è un porto amico dei naviganti. L'avamporto è una rada protettissima, franca dalle manovre dei traghetti, con ampio spazio di ancoraggio. Un lungo molo con abbondanti fondali e colonnine per l'acqua e l'elettricità può ospitare una ventina di barche; sul molo di sopraflutto altre due o tre barche possono ormeggiare all'inglese vicino ai pescherecci. Dietro, più riparata ancora, una piccola darsena  con poco pescaggio riservata alle barche da pesca. Noi attracchiamo in banchina, c'è posto in abbondanza, evitiamo  come sempre quello vicino a un ferro da stiro e anche quello vicino a uno Swan 80, perché P'acá y p'allá non gradisce queste mortificazioni inutili. Comunque stavolta, per la prima volta da quando siamo in mare, non siamo la più bella barca del porto. 
A bordo del Xrisovalandou
Lo swan 80? No, assolutamente, dopo un'attenta analisi, Paquita lo sovrasta. Certo il suo scafo è più bello, slanciato, elegante, marino, lo scafo dei vecchi swan. La gestione Ferragamo però lo ha dotato di una tuga e attrezzatura di coperta piuttosto aberranti, studiati  per soddisfare il bisogno di chi ama guardare il mare restando seduti sottocoperta. Un gran bel modo di essere impegnati, si intende, ma alzarsi e mettere il naso fuori, no? Quell'effetto occhio di squalo sulla tuga mortifica, secondo me, qualunque splendida barca. No, la barca più bella è il Xrisovalandou, un gozzo da pesca largo quasi la sua lunghezza che torna in darsena carico di pescespada. 
Il porto di Myrina visto dal castello genovese
Myrina è una cittadina vera, greca, poco turistica, silenziosa e accogliente. Adagiata ai piedi di massicce rocce vulcaniche e dominata dalle rovine di un castello genovese, su cui sventola una grande bandiera greca con l'orgoglio tutto particolare di quei luoghi che sono remoti e al confine. A Kos, per sicurezza l'hanno dipinta anche sulla roccia una bandiera greca gigantesca. Qui, si limita a sventolare allegramente su un pennone ma sembra dire a chi arriva dai Dardanelli "Questa è Grecia, terra di indomito coraggio e culla di tutte le civiltà. Pulitevi i piedi, prima di entrare".
Cerbiatti al Castello di Myrina
In cima alla vetta, tra le rovine del castello, il panorama si apre a 360° e la terra brulla e frastagliata invita a dipingere, o meglio a saper dipingere. Dalla parte opposta del porto, la baia dove non è permesso ancorare: la spiaggia di Romeikos Gialos, un lungomare di bar e di case tradizionali. Un'arteria collega Myrina alla sua antibaia, piccoli viottoli lastricati in pietra e fiancheggiati da negozi di prodotti locali, tra i quali spicca il vino, soprattutto un moscato per cui Limnos è famosa fin dall'antichità. Troviamo anche una laundry, nascosta nelle vie della città, e un ricco mercato di frutta e verdura, straordinaria rarità in Grecia, unico segno della vicinanza con la Turchia. 
Romeikos Gialos e il Castello
Ci sarebbe tanto da vedere a Limnos, le dune di sabbia a Nord Ovest, i laghi salati che sono casa invernale dei fenicotteri a Nord Est… ma nelle isole grandi rischi di perderti, di abituarti e di non ripartire più. Riprendiamo invece il mare e scorriamo, come sempre in Grecia, la costa sud, ridossata dal meltemi .  
Ci siamo solo noi a sud dell'isola, noi e Oxidiana, un X 445 targato Genova. Con tanto mare libero, scelgono di ancorarsi proprio vicino a noi, nella piccola baia di Steno. Li avevamo adocchiati a Myrina i 4 occupanti di Oxidiana e Giovanni si era più volte avvicinato al loro ormeggio ma son rimasti sempre sottocoperta. Anche qui, al loro arrivo, tenta un timido approccio ma non gli danno spago, non hanno voglia di socializzare. 
La darsena dei pescatori a Myrina
Negli ultimi tempi sono diventata piuttosto tranchant, mi basta poco per definire qualcuno simpatico o antipatico. Il capitano di Oxidiana che snobba il saluto del capitano di P'acá y p'allá merita di rientrare nella seconda categoria. Mi diverto perciò ad assistere ai suoi tentativi fallimentari di mettere una cima a terra. Moglie sotto strillo all'àncora ("Mollaaaaaaaa, ho detto mollaaaaaaa" mentre lei sta già mollando) e un ragazzo, che sembra essere il ragazzo della figlia, sul tender a portar la cima a terra ("Fissalaaaaaaaa, fissalaaaaaaa!!!!" mentre lui la sta già fissando). 
Il progetto è in realtà sbagliato in origine: vento al traverso…. caro mio, duri poco così. E infatti…. molla tutto, torna all'ancora, torna vicino a noi. Ma non ci rivolge la parola lo stesso, pazienza. 
Luna piena a Steno Bay
A questo punto del racconto, per non smentire il mio atavico contro-razzismo verso il nord,  dovrei fare un parallelo tra la targa della barca e l'antipatia. Ma a bordo di Oxidiana, si sente parlare un chiaro dialetto siciliano, quindi la geografia non c'entra. No, deve essere colpa di quella X nel nome che molti proprietari degli X-yacht adottano come codice, quella voglia di sentirsi elìte, di riconoscersi tra loro, di fare Club. Un po' come una spilletta della lobby del giaguaro, insomma. Io e P'acá y p'allá guardiamo attente - e con la massima oggettività di cui siamo capaci - questa barca che è, per caratteristiche, abbastanza simile a noi. Poi ci guardiamo, sorridiamo e io sentenzio dando voce anche ai suoi pensieri: "Non c'è storia, Paquita, sei decisamente più bella". Lei annuisce e una bella X gliela mettiamo sopra noi, stavolta.
Il Relitto del Roksalina (Pnom Penh)
Ci svegliamo e salpiamo, lo fa anche Oxidiana. Non ci vogliono ma ci seguono, si direbbe. 
Incredibile a dirsi: è il 24 luglio siamo nel mezzo dell'Egeo ma non c'è un alito di vento.  Scendere a motore fino a Ag. Efstratios ci sembra davvero un inutile spreco. Rimandiamo di un giorno la partenza e ci fermiamo ad Ambèlites affascinati dal relitto di un cargo di Pnom Penh, il Roksalina. A prima vista sembra un rimorchiatore, ma poi ti accorgi che le fiancate e la prua sono in pezzi sott'acqua a 3 metri di profondità. E' facilmente ispezionabile, anche se l'ammasso di ruggine incute un po' di paura. A terra si è incastonata nella roccia una delle bitte di ormeggio, pezzi della nave sono ovunque. 

Bitta del Roksalina sulla spiaggia di Ambèlites
C'è una calma irreale. Siamo al centro del Nord Egeo in un'isola remota e lontana dalle rotte che  di solito è spazzata dai venti. Non c'è anima viva, non vediamo passare neanche una barca ed è calma piatta. Ogni isola somiglia a un'altra isola, a volte a più d'una. Lemnos è simile a Psarà ma questo è logico, tra le due solo Ag. Efstratios, in origine tutte e tre erano parte di un unico, tanto vicino da essere la stessa cosa. Ma Limnos mi ricorda anche la più lontana Astipalea, prima di tutto nella forma, frastagliata e a farfalla, ricca di golfi e fiordi profondi. Poi le colline brulle, le cicatrici sulla terra, i bassifondi insidiosi. E il suo essere dimenticata dai naviganti. Sembra essere un'isola di passaggio, chi arriva si ferma in porto 1 o 2 giorni e poi riparte verso la sua meta. Merita di più Limnos, come tutte le isole in cui la maggior parte della costa è lasciata a se stessa. Il silenzio è più silenzio in certe rade, nel silenzio la terra ti parla e ti racconta una storia diversa. Basta voler ascoltare.
Limnos. cicatrici di pietre sulla roccia di Steno Bay

venerdì 19 luglio 2013

Calcidica. La "pargoletta" mano e la proverbiale furbizia degli uomini di Chiesa.

Penisola Calcidica - Il Monte Athos
Dà una certa soddisfazione essere arrivati così a nord. Come quando arrivi in cima a una vetta. Ti fermi, guardi intorno, respiri. E sai che davanti hai una bella discesa. Volto metaforicamente le spalle al continente, chiudo gli occhi e sento cha alla mia sinistra siede il Meltemi. "Allora Barabba, che mi volevi dire che urlavi così forte? M'hai fatto arrivare fin quassù, ora, da bravo, scendiamo insieme, mano nella mano,  piano piano, senza spinte e senza fretta." 
La Penisola Calcidica è un regno a sé stante. Una mano di sole tre dita protese verso il centro dell'Egeo.  3 penisole nella penisola. Quasi isole, visto che nella prima c'è un canale e nella terza c'era, costruito da Serse nel 480 a.c. per poter invadere comodamente la Tessaglia e l'Attica, evitando le tempeste frequenti alle pendici del Monte Athos. 
Sithonia - costa a sud di Nea Marmaras
Un 'ottima idea direi, anche se oggi del canale non c'è più traccia e ai naviganti odierni tocca subire l'ira del gigante
Cassandra, Sithonia e Athos. Nomi importanti per le 3 dita.
Cassandra, in antichità detta Flegra si contende con i nostri campi flegrei il luogo mitico della battaglia tra gli dei e i giganti. Il Monte Athos stesso, si narra fosse un sassolino lanciato dal gigante omonimo contro gli dei. Insomma, origini incazzose per questo lembo di terra dai tratti somatici affascinanti. Ignorando la storia e guardando il tutto dal mare come mi è sempre più congeniale, la Calcidica ha per me il sapore di casa. Poco Grecia almeno finché non scendi a terra. Molto continente, poco isola. Molto verde, ancora verde, sempre verde. 
Gabbiani a Ormos Panaghia
La Calcidica, ai nostri occhi, migliora via via che la scorri da ovest verso est. Il primo dito, lo sfioriamo appena, ci lascia indifferenti: grandi spiagge attrezzate, molto edificata. Sinceramente sono lieta di abbandonarlo anche perché il nome, Cassandra, non mi suona per nulla propizio. 
Sithonia è sicuramente la penisola più godibile. Suggestioni tirreniche, un po' di Toscana sul lato occidentale, Sardegna sul lato orientale. Quindi bella è bella ma che dirvi? Voglio tornare in Grecia. Angoli da ricordare ce ne sono: a Agia Kyriaki, Porto Koufo, Sikia, Vourvouros. Nulla però che realmente mi emozioni. È la sofferenza del continente. Se nell'anima sei un'isola, hai bisogno che il mare ti circoli tutt'intorno. 
Sono ingiusta. Ad Agia Kyriaki il clima mite e il vento gentile ci permettono qualcosa che in Egeo è difficilmente consentito vivere: un tramonto sul mare visto in rada. Coi venti predominanti da Nord Ovest è molto difficile trovare le condizioni per vedere il sole tuffarsi nell'acqua. Ed è sempre uno spettacolo unico al mondo, che porta a delle riflessioni.
Tramonto ad Agia Kyriaki
Con Giovanni ci scambiamo per un attimo i ruoli. Davanti alla perfezione del tramonto io, da agnostica anticlericale, mi interrogo su come sia possibile questa perfezione senza una mano e una mente superiore che l'abbia partorita. Giovanni, cresciuto a pane e vangelo nelle scuole cattoliche, dice invece che è proprio questa eccellenza ad escludere la possibilità che sia una entità ad averla creata. È la natura, semplicemente, perfetta fusione di cellule, figlia di nulla se non del caso. Ma il bello di queste riflessioni e di queste domande è proprio nel non trovare né soluzioni, né risposte. Siano stati gli dei (ho sempre preferito questa versione a quella monoteista) o siano state le cellule, grazie.
s/y Gaia con Alberto e Enza
In Calcidica ci incontriamo con Alberto e il suo bellissimo Gaia, un ketch in legno di 16 metri cui ha tolto l'albero di mezzana. Meno invelato ma molto comodo. Un incontro voluto e ricercato, memori dei giorni vissuti insieme a Milos due anni fa in quel che fu uno strano, anticipato inverno. Nella baia di Adamàs ci spostavamo a seconda del girare della burrasca tra il porto e la cala a sud, tra temporali, freddo e groppi di vento a 40 nodi. Ora Alberto, navigatore che vive in Grecia da parecchi anni, ospita Enza un'amica napoletana cui tutto sembra meraviglioso. Resta affascinata dal silenzio di un luogo che a me sembra rumoroso. Invidio la meraviglia di chi assapora per la prima volta questo tipo di vita, quando ogni cosa ti sembra un regalo. 
Taverna in riva al mare a Ormos Panaghia
Alberto è un solitario sempre circondato da ospiti. Quando non c'è Rita, la sua compagna, c'è qualche nipote, figlio, amico. Oppure qualche ospite dal mondo, giovani che imbarca in cambio di una mano in più per domare la barca. Da Aprile a novembre gira per l'Egeo, il resto dell'anno, tolto il Natale a Pescara, lo passa a Kalamàta facendo manutenzione del Gaia. 
"Non bastano 10 anni per essere stufi di questo mare" mi disse a Milos. Oggi, dopo 3 anni, sento che ha ragione. Perché quando inizi ad aver visto quasi tutto, hai nostalgia di ciò che hai visto prima. Perché un'isola non è mai la stessa anche quando non cambia mai. Ci scambiamo visite e cene a bordo, acquisiamo una ricetta memorabile di spaghetti con le cozze "Alberto's stile".
Veleggiamo affiancati per una ventina di miglia da Sikia a Vourvourou in poppa, con un vento da sud, novità dei nostri viaggi egei.
Costa orientale di Sithonia - Isola di Diaporos 
E condividiamo una veglia notturna con 30 nodi e risacca importante in banchina a Ormos Panaghia.
Noi, Alberto e un inglese con ketch in vetroresina di dubbio valore estetico. Siamo ormeggiati stretti per lasciar spazio a un peschereccio che arriva stanotte a scaricare il pesce. 
Noi, in mezzo ai due, siamo ben protetti. Alberto ha la poppa un po' troppo vicina a una barca abbandonata ormeggiata a murata. L'inglese ha il fianco esposto al vento di traverso, tira fuori improbabili sagole per mettere traverse su traverse e ha un figlio adolescente che trova questo gioco di rinforzo degli ormeggi e controllo dei parabordi molto, molto divertente. Spostiamo P'acá y p'allá un metro più fuori, giusto per sfalsare l'albero da quelli vicini. Non lo abbiamo fatto a Skopelos e l'albero di una "barca roulotte" vicino a noi ha toccato e storto il nostro trasduttore del vento. Nessun danno, solo un paio di gite fuori porta in testa d'albero per smontarlo, raddrizzarlo, rimontarlo. Quotidiana amministrazione. A casa c'è chi revisiona condizionatori, qui si raddrizzano trasduttori.
Al mattino salutiamo Alberto e la penisola di Sithonia e andiamo sul terzo dito. Una sosta all'isoletta di Ammouliani, nella baietta a ovest di Ormos Ftelies. Piccola e poco protetta ma splendida e solitaria.
Pescatori a Ormos Panaghia
La Calcidica ha un meteo tutto suo. A differenza del resto dell'Egeo, qui è la primavera a presentare dei pericoli, molto meno l'estate in cui si instaura un regime di brezza con venti da nord est/nord ovest  di mattina e di notte e un bel sud nel pomeriggio. 
Condizione ideale per concedersi una discesa al Monte Athos in giornata. Una gita giornaliera con ritorno al punto di partenza. Insieme alle suggestioni tirreniche della terra, questo one day trip ci riporta a tempi diversi, lontani millenni, quando la barca non era casa, non era la vita ma solamente una bella giornata per spezzare la settimana lavorativa.
In navigazione verso il Monte Athos
La regione del Monte Athos è politicamente greca ma amministra-tivamente a sé stante. 1.500 monaci 
occupano la penisola più bella delle tre e abitano 20 monasteri e 12 skiti (piccole comunità sorte nei pressi di altrettante chiese)
La proverbiale furbizia degli uomini di chiesa: mai che li vedi arroccarsi in luoghi squallidi e con vista sulle periferie industriali. 
Con la scusa della meditazione e della preghiera, eccoli monopolizzare angoli di mondo che sarebbero divini anche senza la loro presenza. Il luogo, via terra, è interdetto a chiunque non abbia un regolare permesso che va richiesto in largo anticipo e che consente 4 giorni di sosta, ospiti delle comunità religiose. 
Ma soprattutto l'accesso è totalmente proibito alle donne. Tanto misogini, questi monaci, da non consentire neanche la presenza di animali di sesso femminile. Mi chiedo che misure abbiano preso nei confronti delle mosche e delle zanzare ma, come si dice, le vie del Signore sono infinite. Leggo che un'eccezione viene fatta per i piccoli animali di compagnia: cani e gatti possono essere corporalmente femminili ma viene loro rigorosamente imposto un nome maschile. La proverbiale ipocrisia degli uomini di chiesa. 
Via mare, la penisola si può circumnavigare, senza fermarsi e a una distanza minima di 500 metri dalla costa. Che diventano 1.000 se c'è una donna a bordo. 
Monastero di Simonos Petras
Immagino i monaci appostati dalle finestre delle loro celle con un telescopio per individuare il sesso dei naviganti. Non essendo neanche poi così allenati al distinguere i diversi sessi. O almeno, non dovrebbero. La convinzione di Giovanni è che il Monte Athos nasconda al suo interno alcuni monasteri "Olgettina", un improbabile blasfemia che oggi non suona poi così improbabile. 
I portolani non concordano tra loro: la distanza richiesta dalla costa varia tra i 500 metri e le 2 miglia a seconda delle fonti consultate. Quando le informazioni non sono univoche, non sono rigorose. Quando le regole sono vaghe e contraddittorie, vale la pena non tenerne conto. Scendiamo la penisola di Athos tenendoci distanti solo perché la luce migliore è nel pomeriggio. 
Monastero di Ag. Gregorius
Navighiamo a tutta vela, stando ben attenti a guardare il mare davanti a noi e i segnali che può fornirci. Il Monte Athos, infatti, con i suoi 2.000 metri di altezza, promette un effetto catabatico importante. Il vento arriva giù dalle vette in raffiche rabbiose che possono mettere seriamente in pericolo chi naviga a vele piene. Ma la giornata è delle migliori, il vento subisce rapidi rinforzi e altrettanto rapidamente si smorza, ma non registriamo mai nulla sopra i 20 nodi. 
Giunti alla punta sud, guardiamo l'orizzonte e vediamo i piedi di un Meltemi che sgambetta allegramente. Una bella onda lunga direttamente da Istanbul e creste bianche sul mare ci ricordano che siamo in Egeo. Il bastardo ridacchia e strilla "Tanto vi ripiglio, eccome se vi ripiglio".
Skitì sulla punta sud del Monte Athos
Gli giriamo le spalle e affrontiamo la proverbiale tolleranza degli uomini di chiesa. 100 metri dalla costa ci sembrano sufficienti come distanza per non turbare le loro anime pie. "Mettete a posto i binocoli, monaci, passa Paquita". Ed è una meraviglia. Costruzioni in pietra erette tra il X e il XV secolo, monumentali, imponenti, perfettamente integrate nella roccia, la maggior parte in posizioni impressionanti a picco sul mare. Stili diversissimi tra loro, fai un miglio e ti senti in Tibet, un altro miglio e sei a Salisburgo. Un gioiello dietro l'altro. Alcuni monasteri sono più piccoli e isolati, altri sono dei veri e propri complessi monastici organizzati come piccoli villaggi. Intorno alle chiese, gli edifici più piccoli per monaci solitari e qualche rudimentale capanno per monaci eremiti. Tutti in posizione strepitosa. 
"La chiesa è troppo lontana dagli uomini e dalla povertà" dice il nuovo papa. Santità, vieni a fare un giro qui, questi hanno bisogno di essere aggiornati. Non ho capito bene se è di sua giurisdizione ma qualcosa potrà fare. 
Sì va bene, la mia irrispettosa pantomima è solo frutto di invidia. Ma tanto dura poco: al restare confinato nel bello preferisco il navigare nell'altrove e consentire agli esseri di sesso diverso dal mio di avvicinarmi.
Monastero di San Panteleimon
Scorriamo la costa a vela, sospinti dal vento che ha girato a sud. Giovanni fotografa, la barca va leggera. Arriva un gommone dell'autorità portuale e si avvicina. L'autorità portuale per mare???? mai vista prima. Mi ricordo che sono essere di sesso femminile e mi catapulto sottocoperta, pronta a nascondermi in un gavone. Tutt'altra esperienza rispetto alle visite della nostra Capitaneria di Porto o Guardia di Finanza. Sorridono al capitano, lo salutano, lo informano che è vietata la navigazione entro 2 miglia dalla costa (ecco qual era la fonte corretta). 
Monastero di Ag. Paolo
Visto che siamo a meno di 100 metri, Giovanni si scusa e loro alzano il pollice sorridendo, facendo capire che non c'è problema. Gli chiedono da dove viene e alla risposta "Italy" alzano di nuovo il pollice in segno di apprezzamento. Italiani - Greci, una faccia una razza. Gli chiedono se viaggia solo, da sottocoperta suggerisco un sì, ma lui confessa subito la mia presenza. Anche qui alzano il pollice. E, salutando, vanno via. Nessuna minaccia di multa, nessun ordine perentorio, nessun gesto prepotente. Si può essere forze dell'ordine senza essere scortesi. Almeno da queste parti. Ed è da queste parti che è nata la civiltà. Non dimentichiamolo.