sabato 4 agosto 2012

Ritorno ad Amorgòs. Il sacro del monastero e quel profano del vento.

“Never sail south of Amorgòs. Never.” Il saggio Manolis, prezioso meccanico del Pireo, aveva sentenziato. Premesso che, dopo la dimostrazione di professionalità mai vista prima sul campo, io da Manolis, oltre che a farmi operare di colecisti, mi sarei pure fatta dire quale abito indossare a una Prima alla Scala, ovvio che su temi come questi non lo si potesse che prendere sul serio. E giustamente lo si fa. Amorgòs, forse la mia preferita delle Cicladi, ti accoglie sempre con grande ritrosia. 
Sia l’altr’anno giungendo da Est a settembre, sia ora arrivando da Kato Koufonisi, l’approccio a Katapola è caratterizzato da vento medio ma mare molto formato e molto scomodo. Quando arrivi però, ritrovi un posto dove è facile desiderare di  fermarsi a vivere. Dal porto con il bus saliamo alla Chora, che si erge nel centro dell’isola a 300 metri sul livello del mare. 
Bianca, splendida, silenziosa. Le case imbiancate a calce che contrastano con gli infissi di colori brillanti, viuzze strette dove si adattano e ne assumono la forma i dehors delle taverne. Immancabile, sui tavolini, la scacchiera di backgammon e il bicchiere di ouzo. Il vento sale rapido sulla montagna e diventa freddo. Ci affacciamo sul lato sud a sbirciare il monastero e i mulini a vento. Siamo a picco sul mare, passeggiamo in un piccolo cimitero di anime che hanno sicuramente trovato un posto in Paradiso, qualunque peccato abbiano commesso in vita. Qui, dovresti ancorare a terra per non essere strappato via dalle raffiche e portato in un batter d’occhio a Santorini.
Ma, fino a questo punto è stato un ritorno, un omaggio a luoghi già conosciuti e amati. Il giorno dopo, salpiamo e giriamo l’isola andando verso Ovest. D’obbligo una sosta a Gramvousa, l’ancoraggio a nord-ovest protetto dall’omonima isola che però non è assolutamente all’altezza dell’altra Gramvousa, quella di Creta. Visto che il vento non è troppo cattivo, decidiamo di proseguire e di percorrere il lato sud di Amorgòs, quello del “never sail there” di Manolis. Vele ben strette, scorriamo la costa di ripide montagne che scendono a picco nel mare.
Splendido. Raffiche violente si abbattono sull’acqua, il rumore del vento è incessante e particolarmente sonoro. Per quanto precario e inquietante, impossibile non decidere di fermarsi per la notte all’ancora proprio sotto il Monastero di Hozoviotissa, una incredibile opera verticale imbiancata a calce che sta letteralmente aggrappata alla montagna di roccia rossa. Si narra che un giorno, nel IX secolo, venne ritrovata una barchetta tra gli scogli con a bordo una icona della Madonna. Questo segno venne interpretato come una benedizione per i pescatori che trovarono in questa icona la loro protettrice da venerare. Si stimò che l’opera provenisse da un piccolo villaggio in Palestina chiamato Hozovo da cui l’icona divenne Vergine Maria Hozoviotissa. Il Monastero venne eretto per onorarla e renderla imperitura. Vista dall’acqua Hozoviotissa è impressionante. Immagino il monaco che abbiamo conosciuto l’anno scorso ricevere gli ospiti. Il monaco indossa abiti borghesi, scarpe da tennis, ti accompagna su per 8 piani di anguste e silenziose stanze, ricche di affreschi e addobbi sacri e alla fine del giro ti offre acqua fresca, qualche loukoumades e un bicchierino di raki.
Sono sicura che veglia sul nostro ancoraggio proprio sotto il monastero. Siamo sicuramente stati immortalati da decine di macchine fotografiche dei visitatori. La vista dal Monastero è splendida e la nostra barca mette nelle inquadrature qualcosa di umano e dà un significato alle proporzioni. È un ancoraggio che sa di provvisorio il nostro ma riusciamo a fermarci per la notte. Strapazzati da raffiche fortissime alternate a calma di vento su un mare che è una tavola turchese, trasparente e limpidissimo. Ne fa un po’ le spese Bomby, saldamente legato a poppa, che fa il ballo di San Vito (o forse in questo caso di S. Dimitri…). Una raffica gli ruba un remo che resterà immolato nell’Egeo e forse diventerà San Remo (no, non è vero, non posso aver detto sta cavolata...). Un’altra raffica lo capovolge, nulla di eccezionale ma non era ancora mai capitato che si capottasse con il fuoribordo montato. In 10 secondi Giovanni riesce a recuperarlo, pulirlo, oliarlo e scoprire che non c’è stato alcun danno. Solo i soliti dispetti del Meltemi che qui, al Monastero, evidentemente si sente ispirato da una sfidante competizione divina. 
Sorge la luna piena e rende ancora più imponente la bianca facciata. Una lucina lieve, forse di candela, una sola, dietro una finestra. Il monaco forse sta pregando per noi. Più probabilmente si sta bevendo in santa pace un bicchierino del suo Raki. Spero solo non stia guardando le Olimpiadi in televisione, questo sì che rovinerebbe la poesia.
Vi sembrerà un’esagerazione, ma lasciatemelo dire: bisogna passare una notte in rada sotto il monastero di Hozoviotissa prima di morire.

1 commento:

  1. Vi sembrero' sdolcinata..ma mi sono venute le lacrime agli occhi leggendo le vostre esperienze di attracco davanti al Moni!capisco perfettamente cosa volete dire....bisogna attraccare davanti al Monastero di Hosoviotissa prima di morire....!!!!!

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