venerdì 18 novembre 2011

Terra! Ma siamo in periodo di prova.


Il viaggio di P'acá y p'allá ~ Maggio-Novembre 2011
E così, dopo 6 mesi per mare, oltre 4.000 miglia percorse, 54 isole greche visitate, 7 regioni italiane, 2 paesi stranieri, siamo arrivati. O meglio, siamo tornati. 
A fare che? Questa domanda suona nella mia testa e so che continuerà a echeggiare imperterrita nei giorni a venire. Siamo tornati. Talmente tornati, che siamo a Roma da due giorni e non si vede che terra a perdita d’occhio.  Abbiamo atteso religiosamente la caduta del governo per mettere piede in città e rendere omaggio a qualcosa di nuovo che sa di migliore. Questo è consolante, rende meno duro il rientro. Comunque, domani torniamo in banchina, ancora in porto, ancora a dormire  sul mare, contiamo i minuti. 
Amici e parenti chiedono “ma non avevate voglia di tornare a dormire su un vero letto?” Strana domanda, il nostro letto su P’acá y p’allá è assai più comodo e confortevole di quello di casa, la doccia funziona meglio ed è anche più spaziosa, il riscaldamento costa meno ed è molto più efficiente. 
Io farò resistenza, voglio restare il più possibile a 150 chilometri dal luogo di residenza, 150 chilometri dalla cosiddetta routine. Quale routine poi? Non la mia, io di routine non ne ho al momento, bisognerà che me ne inventi una. Giovanni è già al telefono, cercando di districarsi tra due servizi fotografici per incastrarli nei giorni e farli entrambi, io medito di far finta per un po’ di accettare la città, fare due o tre cose necessarie che hanno tutte a che fare con segni rossi sul mio estratto conto che ormai sembra un campo di battaglia, e poi tornare da P'acá y p'allá a far finta che non è successo niente. Ci sono un sacco di cose da fare: pulizie, riparazioni, cuciture, sostituzioni, lavori per mettere il bimini con i pannelli solari, il generatore eolico. Due belle vele nuove da pensare e quando ci sono i soldi da ordinare. 
I prossimi giorni saranno giorni di elenchi, odio gli elenchi ma una volta scritti ti danno sicurezza e una spinta in avanti. E, personalmente, mi aiutano a prendere tempo prima di affrontare quel tema che è lì, sottotraccia, e suona come un monito inevitabile: DEVI TROVARE LAVORO. Io? Sì tu, compi 45 anni, non 65, alla tua età si lavora. Soprattutto quando hai una barca da mantenere.
Adesso, non è che non abbia voglia di lavorare, mi è sempre piaciuto molto. Quello di cui non ho voglia è lo scontrarmi con il fatto che il lavoro non si trova. E anche il confrontarmi con un mondo in cui, quando ti dicono che sei aggressivo, ti stanno facendo un complimento e, quando invece vogliono smontarti, ti dicono che sei troppo buono. Troppo buono... esiste un troppo buono? Poco prima di partire, mi sono sentita accusare di essere “troppo poco commerciale”, verissimo, ma non mi ero mai resa conto che fosse un difetto. Vediamo, potrei scrivere un annuncio “Ex manager, decisamente poco commerciale, amante del mare e dei tempi lunghi del pensare cerca nuovo lavoro in pubblicità pur essendo convinta che la pubblicità non serva a vendere i prodotti”. Potrei anche farlo, tanto credo che gli annunci di ricerca lavoro, oggi, passino abbastanza inosservati.
Lavoro fisso non se ne parla, proviamo con la libera professione. Mi immagino a parlare con i manager che cercherò di incontrare per convincerli ad affidarmi qualche consulenza. Dirò loro quello che penso? Ovvero che, secondo me, il problema del nostro settore è nato quando si è deciso che la pubblicità serve a vendere i prodotti? Che è un errore? Che è quello che ha fatto morire la creatività e di conseguenza l'immagine delle aziende? Perché è quello che penso. Ma sì, che il marketing faccia il marketing e le sue promozioni con i suoi messaggi semplici, diretti e per nulla creativi, che quando hai un prodotto valido è meglio che lo dici chiaro e tondo e non ci giri intorno. E che la pubblicità, invece, faccia la pubblicità, costruisca un’immagine e un valore intorno al marchio, nel tempo e con coerenza, con coraggio e con pazienza, senza star lì con gli occhi fissi sui volumi di vendita, che non c’entra niente. Un’idea che sia un’idea non potrà mai sopravvivere allo scempio delle indagini quali-quantitative, l’originalità non mette d’accordo le masse, qualcosa di davvero creativo non può uscire indenne da un focus group con 8 frustrati eletti a giudici per un giorno e guidati da uno psicologo altrettanto frustrato perché, invece di guarire le menti, sta lì a emettere sentenze sull’efficacia di uno slogan...
Ma torniamo al mare che chi passa di qua non lo fa certo per gli stacchi pubblicitari.
L’Egeo è una terra eletta, potremo andarci ancora 10 volte e non avremo visto tutto. E anche allora, non sarà mai abbastanza perché sono isole che non ti accontenti di toccare una volta, hai bisogno di considerarle casa, tutte quante. Difficile stilare una classifica del bello, ogni luogo che abbiamo visto ha un suo ottimo motivo per essere stato nel nostro viaggio, ogni persona che abbiamo incontrato è diventata, in qualche modo, di famiglia. Abbiamo amato la Grecia molto più della Turchia, l’abbiamo sentita più vicina a noi, alla nostra idea di mare, al nostro cercare un altrove. Detto questo, penso ai nostri amici del Pleiades che sverneranno a Marmaris e penso che si troveranno bene, fuori stagione deve essere una meraviglia, speriamo solo si abituino alla costante compagnia del muezzin. P’acá y p’allá si è comportata davvero bene, è stata madre, sorella, amica e figlia, la miglior compagna di viaggio che potessimo desiderare. Anche noi con lei ci siamo comportati bene, abbiamo avuto cura di lei e, se qualche volta le abbiamo chiesto un po’ troppo, poi le abbiamo sempre concesso un po’ di riposo. Ora che è stanca, le stiamo dedicando ancora più attenzione e non lesiniamo in controlli e sostituzioni di tutto ciò che può farla stare meglio e più sicura. Prima di ripartire ci occuperemo del teak, forse le regaleremo una trinchetta e se potremo anche una bella lucidatura di scafo e coperta. Ogni ora lontano da lei, non vi nascondo, sembra un’ora sprecata. Le mattine in cui ti svegli, apri gli occhi e non vedi il mare ti chiedi cosa c'è che non va, perché qualcosa non va questo è certo. Questo viaggio è servito a farci capire che non era un viaggio, era la vita che volevamo. È ora, tornati in patria,  che ci sentiamo in viaggio, ci guardiamo intorno, cerchiamo di adeguarci alle regole di terra, ma siamo precari. Però sappiamo che come tutti i viaggi, avrà una sua fine e allora finalmente potremo tornare a casa, ovvero per mare. Questo ci fa sentire come gli altri, solo un poco alla rovescia. 
Grazie a tutti quelli che ci hanno seguito fin qui. Ci avete regalato la voglia di raccontare, ci avete supportato e accompagnato con i vostri consigli, ci avete fatto sentire in dovere di continuare a viaggiare. P’acá y p’allá va avanti, magari più lentamente e macinando poche miglia ora che è inverno, ma continuerà a veleggiare oltre che per mare, anche qui su queste pagine. Restate con noi.

giovedì 10 novembre 2011

Quasi casa, ma sempre per mare


A meno di 35 miglia da casa, la casa di P'acá y p'allá intendo, Pontile YCSS, Porto Santo Stefano, mi chiedo se il meteo non si stia in qualche modo burlando di noi. Facciamo questo ultimo tratto di mar Tirreno in giornate dichiaratamente estive, accompagnati da venti gentili da nord est, che spianano il mare, quello stesso mare devastato nei giorni scorsi dal ciclone di stampo tropicale che ha investito la Liguria. Il sole splende nel cielo azzurro, piccole nubi da buon tempo sulla terraferma. P'acá y p'allá fila che è una meraviglia un po' solo a vela, un po', quando il vento cala, con l'aiuto del motore. Noi, orgogliosamente sfiliamo di fronte alla costa laziale, come in parata militare, tra schiere di pescherecci, barchini con pescatori intenti al vertical jigging, grandi navi traghetto per la Sardegna.
Ne eravamo sicuri ed è successo, sia ieri che oggi: dopo 6 mesi in cui le autorità greche o non c’erano o se c’erano erano lì per aiutarti, eravamo sicuri che al nostro rientro in Italia avremmo trovato subito la motovedetta di turno che veniva a romperci i coglioni.
Ieri: davanti a Torre Astura, tra Anzio e Fiumicino, sentiamo intorno a noi i boati tipici delle esplosioni, guardiamo le carte e i portolani, nessun avviso di zona militare o di interdizione alla navigazione. Siamo comunque a 3 miglia dalla costa e con la radio accesa sul canale 16. “Attenzione alla barca a vela a 3 miglia da Torre Astura” tuona il VHF a un certo punto, ci inseriamo nella comunicazione per verificare se hanno indicazioni da darci, ma, silenzio, non ci risponde nessuno.  
Dopo poco si avvicina a passo di cavalleria la motovedetta dell’esercito con tanto di sirene spiegate di cui, diciamocelo, nella desolazione che avevamo intorno, non si sentiva il bisogno. Obbligandoci di fatto ad ammainare il fiocco e lascare la randa per fermarci, uno dei 3 tipi a bordo esordisce con un “siete entrati in area militare, dobbiamo verbalizzarvi”.
Adesso, un piccolo inciso che mi sono a stento trattenuta dall’esplicitare al nostro valido drappello di difensori della patria. Perché, mi chiedo, il burocrate italiano deve necessariamente parlare così male? È una cosa che mi fa soffrire dai tempi in cui ero a capo della Pubblicità di Ferrovie dello Stato, quando facevo una fatica immane a convincere altri dirigenti che la definizione “velocizzazione della relazione” non era né bella, né comprensibile ai più e che se volevamo annunciare che il viaggio in treno durava meno bisognava dirlo in maniera più semplice. Quelli erano i “ferrovieri”, che lavoravano in FS da sempre e che ci tenevano a essere ben distinti dagli “esterni”, quelli come me, appunto, che venivano anche definiti “i professionisti”, ma dal loro punto di vista non era un complimento.
Tornando al nostro manipolo militare su scafo, perché, caro caporale, tenente o colonnello che tu sia, quel “dobbiamo verbalizzarvi”? “Ver-ba-liz-zar-vi”, che orrore…. non esiste un modo diverso, meno ridicolo e  sgradevole di comunicare che intendi farci pagare una multa per un reato che, secondo te, abbiamo commesso? 
E poi, perché prima ancora di aver detto “buongiorno” dici “Dobbiamo verbalizzarvi” quando sappiamo tutti e due che poi non lo farai? Perché in Italia funziona così, le autorità al primo approccio devono minacciarti, tanto per farti sapere che loro sono su un piano decisionale rispetto a te. 
Quando ti diciamo che su nessuna carta viene riportata un'interdizione alla navigazione non sai cosa risponderci, della verbalizzazione non parli più, il tono cambia e diventa gentile, però ci chiedi di allontanarci a 5 miglia dalla costa, fare un centinaio di metri e poi rientrare. Una deviazione ridicola, lo capisci anche tu e appena ci adeguiamo all’ordine, richiami la nostra attenzione di nuovo per dirci che non serve più, l’esercitazione è finita, possiamo riprendere la nostra rotta originale. Saluti gentilmente e sembri tornato un essere umano. E il mio verbale? Non se ne è più parlato. E se io ci tenevo a essere verbalizzata? Vabbé, lasciamo stare.
Oggi, invece, a largo di S. Marinella, una motovedetta della Guardia di Finanza ci raggiunge allegramente, ci chiede di fermarci, ce lo chiedono nuovamente e con tono più autoritario mentre siamo già in folle e con la randa lascata, evidentemente ignari del concetto di abbrivio... mettono fuori i parabordi per affiancarsi, poi guardano sulla nostra poppa, vedono il tricolore francese, fanno un gesto di scuse e di saluto e, velocemente come erano arrivati, vanno via. Giovanni ci resta persino un po’ male. Io, invece, trovo un altro ottimo motivo per indossare bandiera francese, anzi magari la cambiamo con quella inglese che si vede da lontano che è diversa da quella italiana.
Capisco che non c’è molto da fare per le forze armate, che a novembre per mare non ce ne sono molte di barche da controllare e quando ne capita una è una festa, che i pescherecci che lavorano anche con il fermo pesca è meglio che li lasciano stare perché se no finisce male, ma non sarebbe meglio se tutte queste braccia rubate alla guerra dedicassero le loro energie a cose più utili? tipo, ripulire il mare, che dopo le mareggiate è pieno di pericoli per la navigazione? Così, è solo un’idea, chiamiamola “riconversione”. 
Ora che ci penso sarebbe bello che qualcuno dicesse alle truppe “Dobbiamo riconversionarvi”….
Torniamo al mare, che è meglio.
Stiamo facendo rotta sulla Feniglia, la grande spiaggia a sud dell'Argentario a sole 12 miglia da casa, sarebbe un'inezia. Ma vogliamo fermarci lì stasera perché è da lì che siamo veramente partiti 6 mesi fa. Poi, stasera c'è luna piena e non me la sento di guardarla da terra. Ma soprattutto vogliamo entrare in porto domani, alle 11 e 11 dell’11/11/11. Che sia di buon auspicio per i viaggi a venire.

lunedì 7 novembre 2011

A Gaeta, Cinema e Bufale: non sempre un cattivo connubio.


Sarà che dopo questo viaggio siamo diventati anime semplici, ma scendere dalla barca su un pontile, attraversare la strada ed entrare in un Cinema ci appare come la sintesi perfetta della felicità. 
Poi scopriamo che a 50 metri dalla barca, c'è un caseificio con la vera mozzarella di bufala, quella a km 0, fatta sul momento, davanti ai tuoi occhi; e poi, la ricottina fresca, la pizza di scarola... Arrivati in Paradiso? No, semplicemente a Gaeta.
Dovete sapere che una delle poche privazioni di questi mesi passati (forse l’unica?) è stata la latitanza dal grande schermo. Quando arriviamo, il cinema Ariston, unica sala di Gaeta, proietta “Carnage” di Roman Polanski ed è un gran bel modo di tornare al cinema. 
Pur vero che, dopo tanta astinenza, sarei entrata anche a vedere "La corazzata Potëmkin" e che nei giorni seguenti pagheremo il biglietto per vedere una cagata micidiale come “La peggior settimana della mia vita”, devo dire che "Carnage" è un film teatrale riuscitissimo, come solo Hitchcock aveva saputo fare. Lo farei vedere, Carnage, magari 10 volte di seguito,  al regista di “Due Partite” che, invece, storpiò il bel testo di Cristina Comencini in una, secondo me, inutile e mortificante trasposizione cinematografica.
Ma perché fermarsi a Gaeta, a sole 140 miglia da casa? Chiedetelo ai Russi, è colpa loro. L’alta pressione persistente sulla Russia ostacola nel suo naturale defluire, e incattivisce sulla nostra penisola, una “perturbazione atlantica autorigenerante”, definizione che a parer mio dovrebbe farla rientrare di diritto nel decalogo delle malattie più temibili e prevedere, per chi viene contagiato, un indennizzo a vita. La bastarda, chiamiamola così per praticità, è alla base delle alluvioni a Genova e in Piemonte, quella che ha fatto litigare sindaci, Protezione Civile e siti meteorologici nel consueto gioco di scarico delle responsabilità, quella che ha portato a scrivere su tutti i portali meteo “Emergenza Maltempo” con tanto di sottolineatura. Ma soprattutto, vista dal nostro piccolo angolo di mondo, quella che sta rallegrando il mar Tirreno con burrasche sciroccali che a tratti degenerano in tempesta. E va bene che è ora di tornare e sul vento a favore non ci si sputa mai sopra, ma proprio essere spintonati a quel modo non ci va. Mentre le previsioni coloravano istericamente le carte dei giorni a venire di rosso, bordeaux e addirittura rosa, colore normalmente innocuo che viene invece cinicamente utilizzato per rappresentare il forza 9, decidemmo quindi che Gaeta valeva bene una sosta.
Il Base Nautica Flavio Gioia è una bella sorpresa, un porticciolo molto ben protetto, tra i meno costosi del Tirreno Centrale, situato proprio nel cuore della cittadina che ha parecchi pregi e una certa piacevole vitalità. Ogni giorno ci convinciamo che l’indomani si parte e ogni giorno ci ubriachiamo di colori meteo e rimandiamo. La mozzarella di bufala ha le sue responsabilità ma sono soprattutto quei rosa sulle cartine, unite ai rossi e gialli che identificano le onde superiori ai 3 metri che ci spingono ad aspettare.
Nel frattempo, assistiamo ad una celebrazione delle forze armate con uno sparuto e per niente formale drappello di carabinieri, finanzieri, marinai, due crocerossine e un solitario dell’esercito. Niente banda, un piccolo stereo con due casse e un mp3 con i brani militari ripetuti in loop. Quando parte “il silenzio”, pezzo lievemente fuori tema, velocemente lo fermano e si passa al brano successivo. Un po’ casereccia come rappresentazione, ma verace. 
Domenica, gli sportivi di Gaeta di tutte le età si sono cimentati in una corsa cittadina che ha registrato una notevole partecipazione. I percorsi non erano chiaramente segnati, tanto che un corridore si è fermato a un incrocio a chiedere dove doveva andare; il traffico non è stato fermato né deviato e  diversi partecipanti hanno rischiato di passare alla cronaca, non tanto per il risultato sportivo, quanto per essere falciati dalle automobili. 
Gaeta è ricca di belle chiese come la romanica S. Giovanni al mare, peccato che o sono in restauro o chiuse per insondabili motivi. Ma la passeggiata al borgo medioevale è piacevole e ti regala la voglia di scoprire quei posti italiani così vicini a te che, chissà perché, non hai mai messo nei tuoi itinerari. Esaurita in lungo e in largo Gaeta, abbiamo preso un autobus per Formia e fatto 3 km a piedi tra viadotti e superstrade per raggiungere la Multisala del Mare e drogarci di nuovo di Cinema, visto che “la peggior settimana della mia vita” resta in programmazione per tutta quella che sarà la “peggior settimana del Cinema di Gaeta”. 
On boat, ci proiettiamo il dottor Zivago, esplicito omaggio all’alta pressione Russa, sperando serva a farla desistere o a farle vincere definitivamente il confronto con la sorella bassa e cattiva, tanto per farci fare senza troppa fatica queste ultime 140 miglia.
Perché adesso, con la pancia piena di mozzarella, ricotte, pizze di scarola e quant’altro, noi saremmo anche pronti a ripartire. Glielo dite voi a questa bastarda autorigenerante?