lunedì 30 luglio 2012

Da Despotiko a Naxos. Il lato sud del centro del mondo.

In pieno Egeo, il periplo delle isole è sempre impegnativo, a volte impossibile. Noi siamo fortunati, con la nostra rotta a ∞, per le sorelle grandi delle Cicladi possiamo permetterci di gestirci il sud all’andata e il nord di queste isole al ritorno. Questo, nei programmi. Programmi cui in Egeo, sia chiaro, è meglio non far troppo affidamento. Rimandiamo quindi le visite culturali di Naxos e Paros al ritorno quando ci fermeremo in porto. Siamo nel regno del marmo di Paros, quello con cui migliaia di statue e costruzioni greche (ma anche la tomba di Napoleone) sono state realizzate. 
Si tratta di un marmo particolarmente bianco che fu definito Lychnites (ovvero ottenuto a lume di lampada) poiché veniva estratto da tunnel sotterranei. La parte Sud di Paros, Antiparos e Naxos è ricca di spiagge di sabbia color oro e sassi di marmo bianco. Ma prima di queste 3 isole, venendo da Serifos si incontra Despotiko, che già solo per il nome merita una visita e il più profondo rispetto. Non ho idea della storia di questo nome, ma ho la sensazione che il Meltemi c’entri qualcosa. Sicuramente, deve avere un nesso il fatto che Despotiko si trovi proprio al centro dell’Egeo Cicladico, un po’ come il Re Sole, tutto gli ruota intorno.  
Ci siamo fermati per un bagno in una splendida baia a sud dell'autoritaria isoletta dove la spiaggia di sabbia prosegue in profondità all'interno dell'isola come fosse un ex lago prosciugato. Magari lo è. Per la notte, ci aspetta un ancoraggio davvero speciale, riparato da tutti i venti e mari: è il mare interno tra Despotiko e Antiparos, calmissimo, atmosfera lacustre dalle acque chiare. A separare le due isole un piccolo scoglio e uno stretto canale di un metro abbondante di fondo. Chissà magari nell’antichità, si trattava di una sola isola. 
Provo ad immaginare queste due gemelle siamesi: una docile, affascinata dalla vicina e opulenta Paros cui si rivolgeva con ambizione filiale; l’altra ribelle e prepotente, convinta di essere il centro del mondo pronta a scalciare per allontarsi dalle grandi Naxos e Paros. Alla fine le avranno divise per quieto vivere di tutto l’Egeo, ma oggi restano a fronteggiarsi da un lato all’altro di questo lago naturale, amico dei naviganti. A sentir bene, mi è sembrato di udire insulti volare sull’acqua da una parte all’altra dello specchio lacustre... Qui, se il meltemi soffia come un dannato puoi sentirti come in una torre dalle mura spesse sulla terraferma. I fondali di 4 o 5 metri di sabbia di ottima tenuta ti permettono di fargli le linguacce, senza alcun timore di mare che si alzi o ancoraggio che diventi precario.
Consiglio comunque di trattenersi ed evitare di irritare il dispotico vento perché prima o poi tocca uscire. E quando esci e continui devi affrontare anche i canali tra le isole che, come è noto generano un particolare effetto venturi di rafforzamento. Un ancoraggio davvero speciale, anche se con il vento che urla è un po’ inquietante, è quello dietro le isole di Panderonisi a 3 miglia dalla costa sud ovest di Paros. Le tre isolette sono un dedalo di scoglietti e chiazze di sabbia turchese. Nell’angolo che forma Tigani con Ghlarobi c’è una piscina incredibile, rafficata ma con mare calmissimo quando regna Meltemi (e quando non regna?...)
Da lì, in mezz’ora di bolina raggiungi la piccola località di Aliki su Paros, un borghetto in cui convivono turisti in cerca di tranquillità e pescatori in cerca di pesce. All’ancora lì, siamo scesi a terra con Bomby e ci siamo regalati una cena in una taverna bordo mare. Bordo mare, nel senso che i tavolini erano davvero quasi in acqua, noi pure.
Su Naxos, siamo scivolati velocemente, ansiosi di tornare alle piccole Cicladi. Evitiamo la baia subito a sud di Ak Kouroupa, dominata dalla scheletro di un grande centro residenziale mai completato e ci fermiamo in una caletta più a sud. Chissà se è qui che fu mollata Arianna… Che poi, diciamolo, non le disse male per niente visto che poco dopo arrivò Dioniso e con lui c’era certo più da divertirsi che con Teseo. Bello e protetto anche l’ancoraggio di Ormos Kalando, dove volendo ci si può ormeggiare nel piccolo porticciolo abbandonato. 
Insomma le Grandi Cicladi le abbiamo percorse un po’ così a tirar via, ma la strada è lunga, la voglia di isole più piccole si fa sentire subito e sappiamo che qui ci ripasseremo. Il Meltemi ci convince a lasciar perdere Dhenoussa, cosiddetta isola del diavolo dove sembra che ci sia un particolare effetto centrifuga che anche quest’anno decidiamo di non sperimentare. Siamo nel punto di intersezione della nostra rotta a ∞. La via del Sud chiama, in maniera abbastanza prepotente.

giovedì 26 luglio 2012

Serifos. Isola del ferro, tra i primi esempi di rivolta sindacale.

Leggenda narra che il re di Argo, Acriso, venne a sapere dall’oracolo che non solo non avrebbe mai avuto figli maschi ma anche che un giorno sarebbe morto per mano del figlio di una delle sue figlie.  Lui ci provò in tutti i modi a deviare il corso del destino, segregando la giovane Danae in una torre. Ma quando il destino sembra controllabile, ecco che arriva Zeus nella sua attività preferita: procreare con le giovani umane. Appena nasce il piccolo Perseo, il caro nonno Acriso non ci pensa due volte a rinchiudere figlia e nipote in una cassa e gettarli in mare. La scatola viaggiante derivò fino a Serifos (si dice grazie all’aiuto di Zeus ma secondo me quello stava già pensando ad altro, io dico che ci ha pensato Eolo), dove il solito buon pescatore la raccolse e salvò loro la vita. 
Poi un altro despota, il re dell’isola, creò loro qualche altro problema imponendo al giovane Perseo di portargli la testa di Medusa, impresa impossibile, sembrava.  Ma il giovane semideo, abbondantemente aiutato da altre divinità, se la cavò egregiamente e tornò con la testa serpentata della Gorgona. 
Oltre che per questi fatti mitologici, Serifos è rinomata per essere l’isola del ferro. Noi, nel nostro piccolo, abbiamo trovato una spiaggia d’oro a Kalo Abeli e, a nord dell’isola, una d’argento. Ovviamente, l’oro non era oro e l’argento non era argento, altrimenti saremmo rimasti lì. Ma guardando sott’acqua con la maschera cogli questi bagliori nei granelli di sabbia.
Proprio per il minerale di cui questa isola è ricca, nei primi anni del secolo scorso vi fu un regime durissimo di sfruttamento delle miniere e dei minatori, che morivano numerosi a causa delle pessime condizioni di lavoro. Le morti bianche ma, visto che si trattava di ferro, non credo le avessero chiamate così. Il primo sciopero greco, ebbe luogo proprio a Serifos nel 1916 ed ebbe un discreto successo, pur essendo un moto spontaneo e facendo a meno di CGIL, CISL e UIL. O forse proprio per questo. Negli anni 60 le miniere vennero chiuse e oggi restano scheletri abbandonati a testimonianza. E spiagge d’oro e d’argento.
Oggi l’isola di Serifos, con una delle Chore più suggestive delle Cicladi, è quieta, accogliente, tranquilla e gradevole come tutte le isole greche che, pur essendo facilmente raggiungibili da Atene, restano incredibilmente, per lo più, dimenticate.
Seppure…. c'è sempre un seppure.
Zeus, se esisti ancora, se hai tempo tra un concepimento e l’altro, se hai ancora un po’ di rabbia in corpo, fammi un favore: stermina le flottiglie charter. Senza pietà. Senza ripensamenti. Senza compromessi. Ok, il buonismo non è una delle mie qualità. La tolleranza ancor meno. 
D'altra parte, non si fosse chiamata P'acá y p'allá, si sarebbe chiamata "STV. State Troppo Vicini". Ma ti capita che tu sia ancorato a Kedarchos Bay, una splendida e tranquilla baia di Serifos, dalle acque cangianti dal turchese allo smeraldo, dalle spiagge orlate di alberi e inframmezzati da scogli rossi, nella quiete più totale che dà un senso alle miglia che hai fatto per arrivare fin qui, quand'ecco... arrivare una barca. Sia chiaro non è che pretendo di avere ogni baia solo per me, per carità non sia mai, il mare è grande, c’è posto per tutti. 
Ma quando vedi sfilarti davanti una processione di 7 (dico sette) barche a vela, ognuna con 8 occupanti a bordo, con il fiero guidone della compagnia di charter appeso alla sartia che fa tanto pensare all’ombrellino rosso delle comitive turistiche in fila per i Musei Vaticani, è sano, normale e segno di animo marino iniziare un mantra che recita “non qui-non qui-non qui”. Probabilmente, se non ci avessero visti, sarebbero andati oltre, lo intuisco dalla repentina virata effettuata da metà della cala, ma credo che il piacere maggiore per le flottiglie charter sia gratificare della loro rumorosa compagnia quei poveri navigatori abbandonati soli in una baia. Anche no, grazie. 
Viaggiano a parabordi indossati, si àncorano affiancati. Ben sette barche a braccetto, in formazione di difesa stile colpo di punizione nel calcio, roba che quelli in mezzo il mare non lo vedono proprio più. Mi chiedo come mai non si portino dietro un pontile galleggiante, tanto per reiterare in rada la situazione del porto che è chiaro gli è di conforto. Zeus, pensaci. In quel momento, quando hanno finito la manovra di ancoraggio e sono lì, tutti belli affiancati, in quel preciso momento una piccola tromba d’aria e puoi scommetterci che persino la seriosa Giunone si spancerebbe dalle risate. 
Davanti a situazioni come queste, mi soffermo dolorosamente a pensare alla caducità delle statistiche. In particolare su due temi. Primo: su 56 persone (dico cinquantasei, ovvero due classi di liceo, o una società di media dimensione) che sono a bordo delle 7 sorelle, possibile che non ci sia uno che dica “Mah, magari noi oggi ci ancoriamo un po’ distanti, ce ne stiamo un po’ più lontani, in mondo da avere mare sia a destra che a sinistra, ci godiamo un paio di etti di silenzio”? Oppure uno che preferisce veleggiare, vuole una spiaggia diversa, ha voglia di fare una passeggiata? Niente. Tutti lì, tutti insieme, non so se appassionatamente ma di sicuro rumorosamente. Senza conflitti, senza spunti di ribellione apparente. 
Secondo tema: su 56 persone di età compresa tra i 5 e i 45 anni, posizionati su barche affiancate che sbatacchiano fra loro sotto le raffiche di vento, con 7 tender e relativi motori fuoribordo in mano a gente poco avvezza, possibile che non vi sia nemmeno un piccolo incidente? Voglio dire, una manina schiacciata tra i bordi di due barche, un canottino che vola via, un riccio di mare, una medusa o meglio ancora una spietata tracina? O un tuffo di testa sulla catena di una delle 7 àncore? Insomma, qualcosa che cambi i programmi e faccia scappar via l'allegra combriccola velocemente.  Oddio, ad aspettare, secondo me, l’incidente si verifica sicuro, troppa densità di popolazione per metro quadro di acqua perché non accada. Ma si fa prima a prendere e andar via. Per fortuna, l’incidenza delle flottiglie charter tende a diradarsi nel percorrere l’Egeo in maniera inversamente proporzionale all’assenza di vento.
E, tanto per compensare l’invasione dei barbari, Serifos ci regala una giornata di calma di vento. Tutto è relativo eh? Sempre un 20 nodi, ma da queste parti è una pacchia. Abbiamo ormeggiato nel porto di Livadi, registrando una piccola soddisfazione: mentre ci dirigevamo nel golfo, un sun kiss 47 di armatore greco, ha portato il motore al massimo, ci ha superato manco fossimo in autostrada stringendo la murata del porto, con il chiaro intento “Chi primo arriva, meglio alloggia”. Sbagliato, l’indigeno ha scelto di sondare il lato Sud della banchina e non c’era più posto. Noi, ripiegando sul lato Nord lo abbiamo trovato. E, cristianamente, ci siamo fatti piccini per fare posto anche a lui. Almeno il 50% dell’equipaggio di P’acá y p’allá non è vendicativo.
Raggiungere la Chora dal porto è una delle imprese più facili. La fermata di autobus è proprio in testa al molo degli yacht e ogni mezz’ora ti porta al centro della cittadella che, come nelle migliori tradizioni delle Chore cicladiche, è uno stretto dedalo di viuzze imbiancate in calce che ogni tanto, tra una costruzione e l’altra si apre a panorami indescrivibili. Sulla sommità la Chiesa di San Giorgio e una vista suggestiva del porto e dell’intero golfo di Livadi.
A cena in uno dei tanti ristorantini sul porto, si mangia bene e la località è discretamente animata ma non troppo. Lasci Serifos con nostalgia, ma sai che le flottiglie charter non ti seguiranno facilmente. E son soddisfazioni.

martedì 24 luglio 2012

Kythnos. Bentornati in Egeo.

“Bentornati, stronzetti! Ve la siete presa comoda eh? Che pensavate che mi ero fatto commissariare dalla Merkel?”. Così ci accoglie il Meltemi. Lui che ogni mattina si alza, continua ad alzarsi e il giorno dopo ancora di più. E non scende mai. Lui al cui confronto lo Spread è un novellino con manie di grandezza. E arriva a sorpresa questo eroe ellenico, come sempre per fare un dispetto. Tutto tranquillo al marina di Alimos, usciamo e constatiamo felicemente che il nostro motore funziona bene, mi sarebbe davvero seccato di ricredermi su Manolis. 
Mettiamo su la randa e fiocco e constatando una brezza 10 nodi da sud, Giovanni fa l’errore che fa sempre. “Aho, ma il meltemi?”. Ecco appunto. Io che lo so, invece, non apro bocca. Mi limito a pensare guardando Capo Sounion che questo punto focale, leggendario per l’incattivirsi dei venti, visto oggi sembra una punta qualsiasi del tirreno centrale in un giorno di bonaccia. Ecco, appunto. Anche solo pensarle, certe cose, chiamano vendetta. Il “Bentornati, stronzetti” ci raggiunge appena superato Capo Sounion. Eolo gira a nord, si trasforma in Meltemi. Se il vento avesse un colore, il meltemi sarebbe verde, come l’incredibile Hulk, potete scommetterci.
Bene, una cosa l’abbiamo imparata lo scorso anno. 
La prima mano di terzaroli va presa subito appena il Meltemi si conclama, ovvero prima che abbia finito di dire "Bentornati". Tanto sai che è solo questione di tempo per prendere la seconda, no? A rischio di sembrarvi poco sportiva, io sono sempre quella che propende per prendere la coppiola di mani di terzaroli fin da subito. È che lo conosco, il ragazzo, lo so che quando si sveglia e inizia a superare i 20 nodi, poi fino a 35 non si accontenta. Propendo, ma perdo. Pare sia usanza che le mani di terzaroli vadano prese una alla volta, quasi che sia un rito, un percorso sacrificale. E quello, il bastardo (il meltemi, non Giovanni), se la ride. Se la ride dei miei lividi, che soprattutto grazie a lui, puntano a superare in termini assoluti il numero di isole greche presenti in Egeo.
Dicevamo, Capo Sounion. 
Se il Meltemi mi avesse lasciato terminare il mio pensiero, mi sarebbe piaciuto rendere omaggio a Egeo, da cui questo bellissimo mare prese nome. Egeo, papà di Teseo, si gettò suicida in queste acque a causa di un malinteso con il suo figliolo. Per meglio dire, per colpa della distrazione del suo figliolo. Vero è che il povero Teseo era dovuto andare a sconfiggere il Minotauro, seminare l’esercito di Minosse… Per non parlare del liberarsi poi di quella piattola di Arianna (che fu lasciata a Nasso, da cui il famoso detto “piantata in Nasso” e non, come credono tutti, “in Asso”…). Insomma erano stati giorni difficili, non v’è dubbio, ma dimenticarsi del patto con il padre di cambiare le vele da nere a bianche per dare il segnale di essere vivo e vincitore, non è stato un gran bel gesto, considerate le nefaste conseguenze. Ovviamente che fa Teseo? Dà la colpa a Arianna. E ti pareva… Forse si nota, Teseo non mi è mai stato simpatico, facevo il tifo per il Minotauro, io.
Così, gentilmente sospinti, abbandoniamo subito l’invernale dubbio, covato dentro le mura domestiche, sulla rotta da percorrere. Tagliamo l’Egeo in diagonale a favore di vento o tentiamo la risalita verso la Calcidica? La prima che ho detto, senza dubbio. Tutto ciò che è a nord di Capo Sounion, sembra richiedere una partenza più intelligente, con passaggio da queste parti prima del mese di giugno. Ecco quindi che cominciamo a dare una forma alla nostra rotta che quest’anno, come potete vedere in mappa, avrà la forma di un 8, o meglio di un ∞, il bellissimo segno dell’infinito. Una rotta furba e un po’ vile, che gira le spalle al bastardo che soffia, offrendogli appena un tre quarti di lombo, tanto per smettere di farsi sputare in faccia. Risalire si dovrà, ma meglio farlo a ridosso della Turchia, dove tende a smorzarsi e a diventare quasi umano. Ecco, l’ho detto. Vuoi vedere che quest’anno si organizza?
Scivoliamo molto velocemente lungo le coste di Kea (chiamata Tzia dai locali, come a far pensare ad una zia un po’ arcigna e malevola). La tzia con il suo sottovento più maligno ci convince a guadagnare la seconda mano di terzaroli per queste ultime 6 miglia che ci dividono da Kythnos, nostro punto di arrivo del giorno e prima delle isole Cicladi che toccheremo quest’anno. Siamo sulla rotta dei traghetti che dal Pireo vanno verso Patmos, grandi navi ci passano vicino e ci superano con la loro imbattibile velocità. 
Kythnos si avvicina, brulla e selvaggia, con le sue rocce rosse e la sua macchia bassa.Troviamo riparo nella sicurissima baia di Fykiada dove un piccolo promontorio legato a terra da un tombolo di sabbia crea uno scenario bellissimo dal confortante perimetro lacustre. 
Il giorno dopo, snobbiamo il porticciolo di Merikha particolarmente soggetto a risacca e conseguentemente diciamo alla Chora di Kythnos che sarà per un’altra volta, tanto torniamo. Quest’isola ci ricorda in qualche modo Agathonissi, molto distante da qui, situata all’apice del Dodecaneso. La roccia, le baie protette, il colore del mare. Non solo. Anche la scarsa densità di barche. Siamo a una ventina di miglia dal Pireo, nella seconda metà di luglio e ti ancori in baie quasi deserte. Lo so qual è il segreto della Grecia, tante isole, tante baie, tanti ridossi: le barche ci sono ma si sparpagliano. 
La terra da mare è sempre accessibile e facilmente. Mario (sempre Monti) se vuoi risollevare le sorti italiane, fai un miracolo e riempi di isole i nostri mari, poi concedi le licenze ai ristoranti sul mare, fagli fare qualche moletto, fagli mettere due corpi morti ogni tanto, butta a mare quella cartaccia complicata dei parchi marini che è fatta coi piedi e si vede, per esempio alla Maddalena. Roba così, Mario. Si chiama "turismo nautico" ed è quello che fa sorridere i Greci. E soprattutto fa sorridere noi italiani che preferiamo navigare in Grecia. Vabbé, lo so che lo faresti, è che hai le mani legate. Torniamo a Kythnos, tu intanto fatti venire un’idea per moltiplicare le isole che mi sembra la cosa più complicata, il resto, volendo, si può fare.
Risaliamo la costa est dell’isola e ci sistemiamo all’ancora nella baia di Ag. Ioannis, monopolizzando l’unica chiazza di sabbia pulita sott’acqua dell’intera cala. Per i profani, le chiazze di sabbia in acqua, specie in giornate rafficate come questa, sono l’equivalente del parcheggio auto all’ombra a Roma a metà luglio: qualcosa da non perdere. L’ancora, infatti, ama la sabbia dove letteralmente sprofonda, aiutata dalle forti raffiche che, spingendo la barca, la mettono in tensione. 
In quelle condizioni è impossibile ancorare sugli scogli, la tensione cui sarebbe sottoposta la catena è troppo forte e ancorare su fondi poco puliti, macchiati da alghe rischia di provocare antipatiche sorprese, un po’ come tenersi aggrappati ai capelli di qualcuno, a parte gli strilli e gli improperi, dopo un po’, si sa, si spezzano.
Chi arriva dopo il monopolista della chiazza di sabbia è destinato a tentare l’ancoraggio più e più volte per rassegnarsi alla fine ad aggiungere all’ancora delle cime da fissare a terra. Un’operazione laboriosa e spesso la soluzione meno ideale in caso di raffiche contrapposte. È questo il caso di un professionalissimo 60 piedi battente bandiera di Jersey (n.b. porto franco) con armatore non nativo dell'isola della Manica ma della verde Svizzera, che dedica in due giorni almeno 6 o 7 ore a questa manovra di ancoraggio. 
Dotato di equipaggio numeroso e tender con ecoscandaglio in avanscoperta, è un piacere vederlo all’opera. Loro ci odiano sicuramente, per buona metà delle ore di manovra, penso che si augurino di vederci tirare su l’ancora e andare via, per prendere possesso della nostra, ormai decisamente nostra, esclusiva chiazza di sabbia. La loro barca è più grande della nostra, decisamente. Secondo loro sarà anche più bella, io direi invece no, ma è difficile da sostenere. Diciamo comunque che con la sua barca delle nostre ne puoi comprare una decina. Per l’assioma “Più ricco = più privilegi”, asse portante dell’insegnamento nelle scuole di tutto il mondo, i signori del 60 hanno l’aria di pensare che la nostra chiazza di sabbia, gli spetti di diritto. E invece no, la sabbia è democratica. La sabbia greca anche di più. Fossimo stati sul punto di andare via, saremmo rimasti. Insana invidia per quei 15 piedi in più? No, solo il Meltemi che contagia e rende un po’ dispettosi.

venerdì 20 luglio 2012

Il Pireo, Atene e la Svizzera ellenica.


Il primo bagno in Egeo lo abbiamo fatto a Aegina, l’isola degli ateniesi, descritta dalle guide come "presa d’assalto nel week end", ma poi neanche tanto. Ancor più tranquille Moni e Metopi, due isolette satellite di Aegina. Il secondo bagno, meno spontaneo, lo abbiamo fatto navigando da Aegina verso Zea Marina, nel Pireo. Bel venticello di prua, mare stretto e formato che si incrocia con le scie di traghetti e aliscafi che in questa “piazza” sono più abbondanti dei pullman in Piazza Esedra. Troppo di prua per le sole vele, ecco che il nostro fidatissimo Volvo Penta 55 (è un motore, non un cane) inizia a rifiutare regimi superiori ai 1.500 giri.  Un problema che presenta solo a marcia avanti e non in folle. Ma nell’elica non c’è nulla e funziona perfettamente. Deve essere un problema di alimentazione, dice Giovanni. La deduzione mi sembra abbastanza logica, anche io quando salto qualche pasto, tendo a rifiutare sforzi che ritengo eccessivi. Ma qui gasolio ce n’è, anche se ormai solo ¼ di serbatoio, perché non se lo beve? La seconda spiegazione che ricevo, inerente a problemi di sporcizia nel gasolio, intasamento di tubi, strozzature e non corretto funzionamento dell’apparato digestivo di P’acá y p’allá mi fanno capire che c’è probabilmente bisogno di un meccanico.
“Un meccanico greco, per carità!!”. Quante volte abbiamo sentito o letto nei forum questa frase? Visto che il problema della barca è sempre un problema di tubi, faccio un parallelo e  mi ricordo il Nobel della colecisti che mi ha convinto ad operarmi due mesi fa con l’anatema “E se poi si deve operare in Grecia? Quelli manco i bisturi c’hanno, figuriamoci i chirurghi”. Sulla pelle di P’acá y p’allá oggi mi sento di dire che la mia colecisti in Grecia sarebbe stata operata alla grande lo stesso.
Prima di deciderci di chiamare il chirurgo delle barche, però, passiamo un paio di giorni in porto nell'illusione che sia stato solo un capriccio e che tornati in mare, miracolosamente, la digestione della barca riprenda senza alcun inconveniente. Più o meno l'atteggiamento con cui io ho rimandato per 5 anni il mio intervento chirurgico. Alcuni lo chiamano "mettere la testa nella sabbia". E infatti, il nostro Volvo Penta, puntuale e caparbio, ci ripresenta il problema all’uscita del Zea Marina. Ok, siamo preparati. Arriviamo al Marina di Alimos e chiamiamo lo specialista Volvo Penta. Tiro fuori il vocabolarietto greco e ci prepariamo a sottoporre il nostro motore alla cura ellenica, tanto vituperata dai forum nautici. E…. Troviamo la svizzera della meccanica navale. Viene Fanìs a fare il sopralluogo, guarda con disprezzo il nostro filtro del gasolio senza separatore per l’acqua e ci preannuncia per l’indomani l’arrivo del suo socio per risolvere il problema. All’arrivo di Manolis, Giovanni dice “E che è un meccanico?”. Manolis sembra un armatore di altissimo lignaggio: bermuda, maglietta polo azzurra con griffe del cantiere, borsa per attrezzi organizzatissima, mani pulite e curate, modi da gentleman, un inglese perfetto di chi ha vissuto all’estero e pensa in quella lingua. Ah, sorride e fa citazioni letterarie. Avete mai visto un meccanico sorridere e fare citazioni letterarie? Manolis è l’esperienza migliore che un armatore possa fare quando deve sottoporre la sua barca ad un intervento operatorio. Dopo 5 ore con lui, non ho dubbi: non mi fossi già operata, gli permetterei tranquillamente di asportarmi la colecisti. Vedere un meccanico, ma non mi stupirei se fosse un ingegnere navale, prendersi cura del motore non limitandosi a risolvere il problema per cui è stato chiesto l’intervento, ma cambiando il percorso ai tubi, spostando il filtro in un luogo più efficace, controllando i bulloni del piede del motore, è come sentirsi compreso dal proprio confessore. Il metodo di Manolis non è poi così speciale: lui dedica tempo e concentrazione al problema. Quando va via la barca non ha un filo di sporco in più di quello che aveva prima del suo intervento. Lui pulisce, cambia e pulisce di nuovo. Manolis, mentre opera, ti spiega tutto perché dice “poi per mare ci stai da solo e allora è meglio se le cose le sai e sai dove mettere le mani”. Manolis dice che il filtro del gasolio non può essere posizionato più in alto della pompa e ti enuncia (abbastanza inutilmente nel mio caso) le regole fisiche a supporto di questa tesi. Quando ti difendi dicendo che non l’hai messo tu quel filtro lì, né tanto meno il tubo di alimentazione, ti risponde enfaticamente che “il problema dei meccanici in tutta Europa è che non leggono, non studiano, non cercano soluzioni migliori”.
Manolis non ha fretta di andarsene, ha ancora un lavoro da fare dopo di noi, ma si ferma fino alle 8 di sera per spiegarci per filo e per segno il funzionamento del motore e darci suggerimenti preziosi.
Il costo? Per il tempo che ci ha impiegato, sulla base dell’esperienza, almeno un terzo di quanto avremmo pagato in Italia. Ma il risultato sembra essere nettamente migliore.
Nella 3 giorni di preoccupazione per la digestione di P’acá y p’allá, ci siamo regalati una gita ad Atene con sosta e cena alla Plaka e visita del Museo dell’Acropoli. Era un anno che mi sentivo dire “E certo che non hai visto la crisi in Grecia, sei stata nelle isolette...” e allora voglio proprio vedere ad Atene che musi lunghi hanno. Ragazzi, in Grecia stanno bene, la classe medio/bassa sicuramente soffre lo stato di crisi che perdura ma si lamenta meno della nostra. Sugli autobus, per le strade, nei negozi, le persone sorridono. Bevono i loro caffè frappé, navigano sui loro smartphone con i wi fi gratuiti disponibili ovunque in città, giocano a backgammon sui tavolini delle strade investite dal vento.
D’altra parte, come saggiamente dice Giovanni guardando la collezione di monete d’oro del IV secolo AC conservate nel museo dell’Acropoli, “quando questi già commerciavano, in quella che oggi si chiama Germania stavano nelle grotte con le clave… e la Merkel vuole dar loro lezioni di Economia?”

lunedì 16 luglio 2012

Mesolongi, Patrasso e lo stretto di Corinto. Tempo di ponti e canali dragati.

Superiamo Itaca ed entriamo nel nuovo. Lo scorso anno scorremmo tutto il Peloponneso verso Sud per entrare in Egeo. Questa volta scegliamo la via di Corinto. 
Vorremmo ancorarci per la notte nell’unico ridosso sull’isoletta di Oxia ma le fish farm e le raffiche di vento ci convincono a desistere e a spostarci nella rada continentale proprio di fronte all’isola. Ci siamo solo noi e le barche dei pescatori ai gavitelli. Dopo il tramonto, restiamo noi e i gavitelli, i pescatori vanno a “coltivare” le loro farm.
Facciamo tappa a Mesolongi, il porto di molti italiani per svernare e fare i lavori alla barca. Situato all’ingresso del golfo di Patrasso, Mesolongi, a cui da mare si arriva percorrendo un lungo e stretto canale dragato a 6 metri popolato da uno strano mix di pescatori e bagnanti, non ha sostanzialmente altro motivo per visitarla. Il caldo africano che ci ha accompagnato finora, raggiunge qui le temperature più elevate, regalandoci un’afa che esalta la nostra voglia di Egeo. 
Un posto buono per svernare, lo sanno bene i proprietari del marina che, quando vado con i documenti per fare il check in, mi chiedono subito se voglio un preventivo per lo stazionamento invernale a mare o a terra. Perché no? Me lo faccio fare anche se so che difficilmente terremmo la barca qui. Se devo tenerla lontana, meglio il sud italia, quello dei prezzi onesti, o il Dodecaneso dove sei già arrivato a destinazione. Con 2.000 Euro mantieni la barca 6 mesi, un po’ in acqua, un po’ a terra, incluso alaggio, lavaggio e varo. Non male, visto che qui è l’inverno ad essere alta stagione.
Il ricordo più bello di Mesolongi è il buiaccaro sul prato dove mangiamo un piatto di souvlaki per 5 euro, inclusa la birra che purtroppo non è greca ma tedesca, perché forse la Merkel li ha obbligati a comprarne talmente tanta che sono costretti a vendere quella in esclusiva.
Il passaggio sotto al ponte di Patrasso è davvero suggestivo. Intanto è il ponte a campata sospesa più lungo del mondo, una costruzione imponente e, vista dal mare, soprattutto se hai un albero che si innalza dalla coperta per 18 metri, anche particolarmente impressionante. Perché è vero che per radio ti dicono dove passare dopo averti chiesto l’altezza dell’albero, è vero che sai che l’altezza minima è di 25 metri, ma quando la tua prua inizia a essere sotto l’arcata, guardi in alto e pensi proprio che, sì, sentirai a breve un gran fragore di acciaio. Questione di prospettive, fatto sta che poi passi e ti ritrovi dall’altra parte tutta intera.
Il golfo di Patrasso ha il suo perché. È un perché poco greco e molto croato, con le acque di color smeraldo profonde fino a riva, i borghetti tranquilli e silenziosi, le colline verdi.
Vorremmo fermarci di più ma un pronostico di forza 10 ci spinge ad accelerare. O meglio a continuare a non fermarci. Una notte davanti al borghetto di Galaxidi, animato ma non troppo, e proseguiamo senza indugio verso il canale di Corinto.
Adesso…. Lo stretto di Corinto, parliamone. Intanto ci va una dedica ad Ada che lo stretto di Corinto ci teneva a viverlo attraverso noi e le foto sono tutte per lei. 
Da anni sento elogiare il passaggio di Corinto come una delle meraviglie del mondo del mare. “Un’esperienza fantastica”, “Uno scenario grandioso”, “un’emozione indicibile”. Giovanni stesso resta affascinato. Io? Che ve devo dì? Grandioso, indicibile e fantastico sono aggettivi che userei per altre inquadrature. La cosa che mi ha più colpito del canale di Corinto è un povero cane morto (proprio un cane morto eh? Non quelli dei modi dire tipo “non c’è un cane morto”) affogato a metà del canale. Sarà caduto dal ponte della ferrovia? Sarà una vittima dell’abbandono pre-vacanze estive? Non saprei.
Ma come? Passi il Canale di Corinto e quello che noti è un cane morto, non le rocce calcaree a picco sulla strettoia, non le acque di uno strano e torbido turchese? Va bene, per acquisire un po’ di sensibilità ai vostri occhi, posso dire di aver pensato agli operai nell’atto di iniziare gli scavi di un’opera che essendo dell’uomo e non della natura, questo sì, ha qualcosa di grandioso. Che avranno detto? “Vabbé cominciamo da qui, certo ci vorrà del tempo…”. E ci sono voluti 12 anni, per scavare questo canale largo 25 metri, lungo più di 3 miglia, con un’altezza massima di 79 metri sul livello del mare. A pensarci bene, molto meno della Metro C di Roma. Grecia-Italia 1 a 0, anche se gli anni erano diversi e alla fine dell’800 pure noi eravamo un po’ più lesti di ora, dicono. 
La trafila per passare il canale, anche qui descrittaci come una lunga attesa di parecchie ore (si vede che il Canale di Corinto ha l’effetto di superlativizzare le sensazioni…), si riduce ad un’ora scarsa, nonostante siamo tanto sfortunati da arrivare proprio quando hanno appena chiuso la diga nella direzione Ovest – Est. Compagni di passaggio, il cargo Jackaranda che obbliga il convoglio a una velocità di 3,5 nodi, un veliero francese, il Belespoir, di 27 metri e, a farci sentire meno il Calimero della situazione, una barca a vela, Lola, battente bandiera americana. Tutti in fila indiana, guidati dalla professionalissima e incazzatissima voce per radio che ci indica come, e soprattutto quando, iniziare la navigazione. E noi, ubbidienti, gente affamata di Egeo, procediamo, in religiosa e lenta processione, non per ordine di arrivo ma per grandezza della barca. 
Il canale navigabile dal pedaggio per miglio più costoso del mondo, prevede l’attracco sull’ingresso Est per il tempo veloce del dazio di 227 euro. Tutto per risparmiare 150 miglia. Insomma, il canale di Corinto è quella cosa che almeno una volta va fatta. E noi lo abbiamo fatto. Anche se, diciamocela tutta, se non conoscessimo bene il buon Meltemi che ha la bizzosa smania di spingere il prossimo violentemente verso sud, non avremmo usato questo ormai storico trabocchetto e, senza particolari timori, saremmo scesi verso sud per riguadagnare miglia a nord dopo Capo Maleas. Ma al figlio indemoniato di Eolo qui, ce lo ricordiamo bene….

giovedì 12 luglio 2012

Argostòli. La Cefalonia dei lungo naviganti.

Ok, ok, lo so. “Ce ne hai messo di tempo a scrivere, Francesca eh?”. Lo sento che lo state dicendo. Voi, quattro fedeli gatti che passate di qua, per lo più parenti e amici, per sentirvi raccontare un po’ di questo mare e di questo viaggio. Avete presente il foglio bianco? Ecco, ad iniziare a parlare di Grecia, ci vuole un po’, perché la Grecia prima che tu possa parlare di lei, deve rivolgersi a te, farsi riconoscere, entrare in contatto. Belle scuse. Macché, era solo pigrizia...
Quindi, con diversi giorni di ritardo rispetto al nostro arrivo a Cefalonia, vi parlo finalmente di lei. 
La prima cosa che facciamo nelle acque di Cefalonia, dopo una traversata lunga 24 ore e impegnativa solo per il nostro serbatoio di gasolio, occupato a cantare per buona metà del percorso, è accogliere a bordo un simpatico clandestino. “Un delfino!” sento strillare Giovanni, indicando a dritta della barca. “Ancora???” penso io, visto che abbiamo visto molti più delfini che onde, finora. Ma il tono di sorpresa, che sarebbe stato ingiustificato ormai per un delfino vero, aveva in questo caso un senso. Non è un delfino come gli altri, è un’interpretazione in pvc del simpatico mammifero marino. Un delfino gonfiabile, insomma, perduto da qualche bambino su una spiaggia, chissà dove e chissà quando. E’ disegnato in maniera stranamente realistica e ha gli occhietti aperti in una strana e sinistra fissità. 
Due maniglie montate sul dorso fanno capire chiaramente il suo scopo e la sua totale inutilità per chi ha un peso superiore ai 20 chili. Non possiamo lasciarlo lì, da solo, in mare aperto. Così, al grido di “Chi abbandona un delfino gonfiabile è una bestia” lo issiamo a bordo, sistemandolo sulla tuga accanto al nostro fedele tender. Che ci faremo, non lo so proprio. Magari lo regaleremo al primo bambino simpatico che incontriamo. E non mi venite a dire che tutti i bambini sono simpatici perché sappiamo bene che non è vero. Al momento comunque, Delfi è lì ad oziare, totalmente inutile, non aiuta nelle manovre, non serve a condurti da nessuna parte, non nobilita P’acá y p’allá né la rende eroica, irrita a dismisura il tender Bomby che ha già dovuto digerire l’imbarco di una canoa gonfiabile a bordo. Ti vedo male, Delfi…
A confortare la nostra preferenza per gli animali vivi e in carne e pinne, mentre nuotiamo in una cala a Sud di Cefalonia, incontriamo una bella tartaruga. “Tu tienila, mentre io vado a prendere la Go-Pro”, dice Giovanni. (per chi non lo sapesse, è il caso di sottolineare che la Go-Pro è una micro-telecamera e non un’arma da combattimento…). Mentre si allontana penso al significato di “Tienila”, come si tiene una tartaruga? Dopo un paio di minuti, risulta chiaro che è lei che tiene me e non viceversa. Le nuoto accanto, con discrezione e rispetto, lei prosegue e a tratti rallenta per aspettarmi, ogni tanto gira la testa a controllarmi e capisce che non sono offensiva, oltre al fatto che, se vuole, può seminarmi in un battito di pinne, o di zampe. Ben altra accoglienza riserva a Giovanni da cui capisce presto che è meglio darsela a pinne levate. Tranquilla, tartaruga, a bordo non c’è certo spazio anche per te. Per completare lo zoo, Cefalonia ci regala anche la vista di una buffa foca monaca in navigazione contromare.
Il piccolo paese di Argostoli, incastonato dentro un fiordo sulla costa sud-ovest di Cefalonia è una piacevole sorpresa ionica. Porto di entrata per la Grecia, è fuori dalle rotte dei charter, troppo fuori mano per chi prende in affitto la barca a Corfù, a Lefkada o a Itaca, in una parte di costa normalmente battuta dal vento. È invece il luogo ideale per quelli che hanno fretta di Egeo, come noi quest’anno. Quelli che tagliano dritto da Rocella Ionica o Crotone perché le Ionie sono un passaggio e non una meta. Al molo insieme a noi, una splendida vela di 100 piedi, il Nilaya e il “Paroa” un Hallberg Rassy 42 piuttosto stagionato, come la proprietaria, una arzilla 75enne vedova di Palermo che per ritrovare le atmosfere di viaggi fatti con il marito è partita per l’avventura greca imbarcando skipper e compagna a bordo. Siamo ormeggiati proprio di fronte l’autorità portuale e riviviamo con una certa commozione il rituale delle procedure di ingresso. Compiliamo fogli su fogli ad una apparentemente sveglia giovane ufficiale che duplica i nostri fogli in decine di fotocopie, apponendoci sopra centinaia di timbri e facendoci la consueta domanda “Your next port, please?”. Ora lo so, e invece di risponderle “E chi lo sa, signorina” me ne invento uno qualsiasi sulla rotta. La tassa di ingresso annuale è sempre la stessa, 15 Euro, perché nonostante la grave crisi economica che ha messo in ginocchio il Paese, i Greci si guardano bene dal farne ricadere il peso sulla nautica da diporto, uno dei principali serbatoi di benessere ellenico. (Capito, Mario?). Ti chiedono di pagarla, quasi scusandosi, e ti avvertono che se riparti entro sera non dovrai pagare anche l’ormeggio di altri 15 euro. (15 euro per il transito. Capito, marina italiani?).
Il Paese di Argostoli ha un piacevole sapore di città di frontiera. Tranquillo e attrezzato, il bar sul porto ha il wi fi gratuito e riesci a prendere la rete pure dalla barca. Il supermercato Tzanetos è fornitissimo e io posso risolvere facilmente la mia ansia da scarsa fornitura di cous cous, saccheggiandolo di tutte le scorte. La cena da Arxontiko è buona e abbondante, mai prendere più di un piatto in Grecia! In meno di 24 ore, archiviamo Cefalonia. Lo avevo detto che avevamo fretta di Egeo!

mercoledì 11 luglio 2012

L'Italia in discesa libera

Mentre Scipione, Caronte e Minosse si passavano il testimone e preparavano il terreno al perfido Lucifero, noi e la nostra barca (a vela) per omaggiare il governo italico di un bell'importo di accise, abbiamo dato fondo a litri di gasolio per compensare l'indegno ritardo con cui siamo partiti quest'anno, senza aspettare il vento giusto (o quantomeno il vento) per partire. Ritardo sì, ritardissimo direi, se l'italiano lo consentisse. Ci perdonerete, abbiamo dovuto lavorare, non per vivere, per pagare le tasse. Non è la solita lagna da cui, chi mi conosce, sa che rifuggo volentieri, è la semplice verità almeno per me. Il netto guadagnato quest'anno era superiore a quanto dovuto in dichiarazione dei redditi per l'anno precedente. 
La colpa? Mai più partita IVA per una che si scarica solo 30 euro di un biglietto del treno (solo l'andata perché il ritorno l'ha perduto). Pare non usi così, dicono. E deve essere per il fatto che non si usa così che alcuni vedono tra lordo vero e netto finale una differenza del 65-70%. Pochissimi e particolarmente fessi ma ci sono. Insomma la partita IVA non fa per me, roba da ragionieri dello scarico, da acrobati dei cavilli amministrativi, non da chi con gli scontrini ci fa le barchette mentre parla al telefono. 
Caro Mario Monti, va bene tutto, tanto i fessi restano fessi, gli allergici alla raccolta scontrini pure, ma almeno un premio "contribuenti incredibili" me lo devi dare. Vorrei metterlo sul curriculum vitae.
Perché a dirla tutta Mario, mi sono accorta che è da un po' che dimentico di pagare il bollo del motorino, non so da quanto, nemmeno all'ACI lo sanno perché non hanno più accesso dai terminali, lo sanno al numero verde ACI ma l'unica volta in cui rispondono è quando "mi dispiace, ma il terminale non funziona". E così, nel mio delirio da contribuente bulimico non sono riuscita a saldare quel mio debito con lo Stato. 
Adesso, visto che all'erario si stanno facendo un sacco di risate su una che tra tasse e contributi ha versato il 67%, potresti pure abbuonarmelo quel bollo, Mario. Potresti dire, ma sì facciamoglielo 'sto regalo a questa allocca, in fondo poi possiamo dire che se lo è fatto da sola.
Vabbé fa niente, Mario, scherzavo. Era solo per dire che quei pochi poveri fessi che in Italia non evadono manco un po' te li dovresti curare di più. Fa nulla, pagherò bolli e sanzioni appena torno. Tu però fai un favore. 
A quelli che da sempre evadono per abitudine e tanto, tantissimo, quelli che son ricchi non certo grazie al loro lavoro né ad elevatissimo ingegno, a quelli, dai che lo sai chi sono, fagli un culo così. Così poi magari l'abbassi 'sta pressione fiscale e anche quelli lì le tasse le pagano più volentieri, se sono meno onerose  e se gli brucia un po' il sedere per quante gliene hai date.
Ma torniamo alla navigazione che di tasse si parla fin troppo. 
Bisogna prima di tutto dire, che P'acá y p'allá quest'anno parte da signora navigata ed esperta di vivere per mare. Si porta dietro una bicicletta pieghevole, una canoa gonfiabile e due comode sedie da ponte, una delle quali potete apprezzarla in uso nella foto d'apertura. 
Siamo partiti mercoledì da Porto Santo Stefano e dopo 6 giorni abbiamo lasciato Crotone diretti a Cefalonia. Abbastanza un tour de force per una barca che ha due sole persone a bordo. Una notte di sosta a Palmarola, una a Tropea, qualche ora a Rocella Ionica e una notte a Crotone.
Il Tirreno ci ha omaggiato di un'indigestione di delfini, accanto a noi giorno e notte.
Ragazzi, quanti delfini ci sono in mare! Mario, facci un pensiero, mettigli una piccola tassa e risolviamo il debito pubblico. In fondo il mare lo usano anche loro, come le barche.
Un mare calmissimo, dalla superficie di vetro, i delfini sotto la prua sembravano dietro ai cristalli di un acquario. Un mare che una barca a motore avrebbe decisamente saputo apprezzare meglio. Noi avremmo preferito qualcosa che desse un senso a quell'albero che di solito indossa una vela, anche perché frutti non ne fa e, da spoglio, nemmeno tanta ombra. 
Le notti in mare però sono state magiche, pochi incontri e la luna piena a segnalarli. Meglio e in linguaggio più immediato di quanto faccia un radar.
Stromboli all'alba ci ha accolto con i suoi particolari fuochi d'artificio. Lapilli e sciara di fuoco un po' offuscati dalla solita nuvola sulla montagna. Ben altri fuochi d'artificio a Rocella Ionica dove ci siamo casualmente ancorati a 200 metri dal punto sulla riva in cui venivano armati. Noi eravamo lì per dormire qualche ora ma il santo patrono (o la Santa) di Rocella ha deciso che non era il caso e ci ha dato questa sveglia un po' particolare. Avremmo potuto intuirlo dalla processione a mare  coi barchini che aveva reso eroico il nostro ancoraggio ore prima. Per quanto bella, P'acá y p'allá non poteva attirare tutta questa tifoseria calabrese.
Il giorno prima a Tropea avevamo provveduto all'essenziale: un posticipatissimo taglio di capelli per Giovanni e l'acquisto di beni primari quali cipolle rosse, origano e pasta di mandorle. 
Crotone ci ha regalato l'esperienza di un bancario gentile e disinteressato e son cose che lasciano il segno ai tempi attuali eh? Qui devo però fare un passo indietro. Cosa non si dovrebbe assolutamente fare 36 ore prima di partire? Perdere il portafoglio con tutte le carte di credito e di debito è sicuramente tra le prime 3 cose che vi vengono in mente. Cosa che forse sale al primo posto se nel portafoglio in questione erano conservati anche i codici PIN corredati di dettagliata legenda. 
Nella faccenda del portafoglio perduto, e ovviamente ritrovato non appena terminato di bloccare tute le carte suddette, va encomiato il comportamento di 3 persone. Primo fra tutti l'amico Cesare che si è dato da fare per ridarmi un bancomat in poche ore. Poi il simpatico carabiniere di porto santo Stefano anche solo per la normale rapidità con cui ha scritto la denuncia (ci avete mai fatto caso? A Roma ci impiegano minimo 3 ore) e, ultimo ma non ultimo, il gentile Giuseppe, funzionario dell'Unicredit di Crotone che mi ha portato fino alla barca la mia CartaSì per non farmi arrivare fino in filiale. Ecco, comportamenti così, di chi fa il proprio mestiere pensando di fare un servizio al prossimo ti rimettono in pace con l'umanità. Basta poi un colloquio con l'operatore della Tim a farti cambiare idea....