martedì 30 agosto 2011

Kos – In omaggio a Nikita


Il primo viaggio insieme, Giovanni ed io, lo abbiamo fatto nel 1985: Grecia, isole del Dodecaneso. 300.000 lire in tasca e come programma scoprire le isole più incontaminate fino a che non fossero finiti i soldi. In un mese ne abbiamo girate una dozzina. Dormivamo per lo più in tenda sulle spiagge ma a Lipsi ci regalammo 3 giorni in una piccola pensione, “Da Nikita”. Non mangiavamo quasi mai, per lo più quando riuscivamo a scambiare un pesce pescato da Giovanni con un pasto completo in un ristorante, o con qualche uova e pomodori, una volta persino con biscotti e caramelle. Nikita si offrì di cucinarci lui la cernia che avevamo preso (al forno con pomodori, patate e cipolle) in cambio avrebbe tenuto la testa per sé. 
Eravamo conquistati dalla piccola Lipsi, che allora era davvero incontaminata e dopo cena, sulla terrazza della pensione, gli chiedemmo un consiglio su quale isola visitare. Davamo per scontato alcune cose come “piccolo è bello”, “sconosciuto è da scoprire”, “intatto è molto meglio di civilizzato”. 
Ma Nikita, vecchio pescatore isolano, la vedeva diversamente da noi. Guardando l’orizzonte con occhi sognanti ci disse “Kos! “. Noi, che sapevamo che Kos e Rodi erano ben distanti dal nostro obiettivo, chiedemmo perché e lui, sempre con gli occhi pieni di malinconia, “Grandi Alberghi… Palazzi, Night Club…”. Fu allora che, per la prima volta, capii cosa era un gap culturale. Quel che per noi giovani occidentali urbanizzati era da rifuggire, per un isolano anziano confinato dal mare era una meta ambìta.
Il giorno dopo, ancor più saldi nelle nostre convinzioni, prendemmo il postale settimanale per Agathonissi dove fummo ospitati dal Papas dell’isola e ristorati da una sua vicina: non c’era nulla che potesse fungere da ricezione turistica.
A Kos ci tornammo poi 15 anni più tardi, quando prendemmo in affitto una barca a vela con due amici e sempre più lontani dalla voglia di sviluppo turistico ne fuggimmo via senza neanche guardarla, tornando nelle isole più piccole e sperdute.
Quest’anno, complice la voglia di passare una serata con Gioia e Aldo, anche loro di passaggio qui, decidiamo invece di fermarci. Ma soprattutto lo facciamo perché qualsiasi portolano, qualsiasi guida turistica per naviganti consiglia caldamente di fuggirne lontano. E infatti, la costa sud è bella, deserta e affascinante. Ogni tanto qualche villaggio, non proprio da capolavoro di architettura, interrompe la poesia del territorio, ma per lo più è spiaggie bianche, rocce di colori caldi, mare calmissimo, con forti raffiche di vento alle due estremità. 
Anche Kos ha quindi il suo perché, non tanto il lato nord con gli scempi edilizi tanto amati da Nikita ma la sua costa meridionale, abbandonata dagli uomini dove la natura la fa ancora da padrona. Sul lato Est i due porti, il vecchio porto proprio sotto il castello e il nuovo marina dove siamo andati noi. Kos Marina è il porto dove potremmo trasferire la barca dall’anno prossimo. Il costo è tra i più bassi, il marina efficiente, bello e riparato. 
Kos è un’isola strategica, a Est c’è la Turchia per la bassa stagione, a Ovest le Cicladi con Amorgos a sole 40 miglia, a Nord e Sud le bellissime isole del Dodecaneso. Tanto strategica che purtroppo il marina ha una lista d’attesa, quest’inverno scriverò loro per inserirci P'acá y p'allá.
A Kos città ti immergi nel caos vacanziero, locali e musica a palla ovunque, orde di caicchi nel vecchio porto, confusione e traffico di automobili. 
Però è imperdibile, la cittadella persino per noi che siamo romani (figuriamoci per gli americani…), è un continuo spunto culturale, il museo un piccolo gioiello, i siti archeologici trasudano storia e antichità.
Andiamo a trovare Gioia e Aldo che con il loro MySong sono ormeggiati al vecchio porto e visitiamo la loro bellissima barca, classica ma attrezzatissima, bella e accogliente, allo stesso tempo sportiva e veloce.
Se a qualcuno, leggendoci, è venuta voglia di un po’ di Grecia, consiglio vivamente di contattarli (http://www.sailmysong.com), fanno base a Leros e con loro il charter è sicuramente un modo più autentico e genuino di stare per mare.
Ci separiamo di nuovo, loro verso Leros dove lasceranno la barca e torneranno in aereo in Italia, noi verso la Turchia per tentare di uscirne ufficialmente senza farci arrestare. Le immagini di "Fuga di mezzanotte" appaiono minacciose dinnanzi a noi...

sabato 27 agosto 2011

Nisyros e la Giali Experience


Decisamente Nisyros è un’isola che non ama le barche. Quasi perfettamente rotonda, non offre ridossi e ancoraggi riparati. L’isola è un cratere vulcanico, principale motivo per visitarla. Lo abbiamo già fatto anni fa, quindi questa volta ci limitiamo a girarci intorno, avvicinarci al porticciolo di Mandraki e poi ce la lasciamo sulla nostra poppa consapevoli di avere molta strada da fare. Vogliamo fermarci a  Giali, che è l' “accento grave” di Nisyros, una virgola orizzontale di terra 3 miglia più a nord. 
Lo spettacolo è davvero particolare, l’isoletta è semplicemente una grande cava di pomice, a terra scivoli di carico, macchine che lavorano la roccia, operai al lavoro. A mare, grandi navi adibite al trasporto dei materiali, ormeggiate ai gavitelli. Oltre a questo è anche una gran bella baia, l’acqua è lievemente intorpidita dalla roccia calcarea ma i fondali sono puliti e belli. 
Durante la giornata siamo in compagnia di diverse barche a vela, in sottofondo il rumore dei cavatori in fervida attività. Davanti a noi la montagna con le sue cicatrici che fanno dei disegni geometrici e una enorme duna di pomice, diversa da quella di Lipari, più grigia e meno fine, non ti viene voglia di tuffartici dentro, risalirla e scivolare giù, fa un po’ paura, pensi alle valanghe e alla possibilità di restare sepolto sotto quella pomice. 
Ma forse è solo che sono 30 più grande di quando andai a Lipari, il che vuol dire almeno 10 anni meno incosciente. Di notte restiamo in 2, noi e un’altra vela più piccola. La montagna veglia su di noi nel silenzio del riposo dei cavatori.

giovedì 25 agosto 2011

Tilos. Quando la Grecia è atmosfera.


Lasciare Halki è un po’ una elaborazione del lutto, ma si riesce a farlo più facilmente se si dirige verso Tilos. La navigazione è con vento medio che per l’occasione viene gentilmente ed eccezionalmente un po’ da Sud, tanto per aiutare la nostra risalita. Nelle cale di Tilos non incontri nessuno, le barche a vela che passano di qui sembrano interessate solo a un ormeggio nel porticciolo di Livadia o all’ancoraggio nella tranquillissima baia antistante. 
Buon per noi, il mare è bellissimo, acque limpide, fondali fantastici, spiagge di ciottoli colorati. Il porticciolo ha solo una decina di posti, riusciamo a aggiudicarcene uno arrivando nel primo pomeriggio. L’ormeggiatrice è una signora estremamente competente, ti accompagna all’ormeggio da terra come un direttore d’orchestra, conosce alla perfezione la sinfonia del fondale e il ritmo delle correnti. Quasi quasi, ti vien voglia di farle un applauso. Subito dopo, appena ormeggiato, ti vien voglia di scappare: il caldo oggi è inarrestabile. 
Aspettiamo le 6 per fare la nostra escursione a Megalo Chorio che vorrebbe dire grande città e che concretamente consiste in un piccolo borgo di casette bianche fatiscenti arrampicate sulla montagna. Ci arriviamo con l’autobus che ovviamente ti lascia ai piedi della cittadella e dopo 10 minuti abbiamo visto tutto ciò che c’è da vedere, l’immagine chiave che porto con me sono due anziani signori nella loro terrazza con vista 5 stelle sul mare intenti a bere una tazza di tè circondati di fichi d’india e melograni. 
Vorrei chiedergli cosa ne pensano dell’effetto serra e delle domeniche a piedi, tanto per vederli ridere alla faccia nostra. Visto che oggi, causa autobus, non abbiamo camminato abbastanza e soprattutto che quello per tornare in porto passerà solo dopo 2 ore, decidiamo di camminare fino a Agios Antonios, un porticciolo sulla costa nord. 
Per chi dovesse seguire un giorno le nostre orme, non fate come noi, scegliete il sentiero a mezza costa dalla sommità del paese e non la strada asfaltata a valle, più panoramico, più fresco e, come ho già detto, a camminare su un sentiero ci si sente meno idioti che a farlo su una strada carrozzabile. Il porticciolo Agios Antonios è l’essenza della Grecia: un caffè sotto i platani e gli eucalipti, 4 tavolini, uomini che giocano a backgammon. Al molo qualche barca di pescatori e un piccolo caicco. 
Ci guardiamo il tramonto aspettando il nostro autobus che arriva con 20 minuti di ritardo ma per fortuna passa visto che la strada è completamente buia, oltre che lunga. Tilos è un’altra delle isole della Grecia che sembra sostanzialmente dimenticata dal turismo, un’altra isola da non perdere, quindi.

martedì 23 agosto 2011

Halki. Un altro posto dove andare a vivere.


Halki e la piccola Alimia sono due isolette a meno di 5 miglia a nord ovest di Rodi. Ma forse non se ne sono accorti, oppure sono venute fuori dal mare all’improvviso quest’estate e ancora la notizia non si è sparsa. Intendiamoci, la desolazione di Gavdos e di tutta Creta è altra cosa ma anche qui, incredibilmente, il turismo è molto poco aggressivo. 
Alimia è terra rocciosa totalmente disabitata, ha una grande doppia baia molto chiusa al mare dove regna una tranquillità assoluta. Con noi in rada un paio di caicchi e altre due barche a vela. Ci ancoriamo con la cima a terra a un moletto di pietra, Giovanni va a controllare l’ancora e scopre il relitto di una grande barca a motore ancora intatta adagiata su un fianco, al suo interno saraghi fasciati di diverse taglie hanno messo su casa. Cerca di convincermi ad andare a dare un’occhiata ma il fondale è troppo alto per me, mi faccio forza e nuoto in quella direzione ma quando vedo il fondo scendere e il blu davanti sento la musica de “Lo Squalo” e faccio rapidamente dietro-front. 
La scena della testa senz’occhio che fa capolino da un oblò del relitto nel film mi torna in mente in maniera precisa e segna inequivocabilmente la mia serena rinuncia a questa visita, mi accontenterò della descrizione. 
Arriviamo ad Halki e scopriamo che Emborios è uno dei paesini più belli di tutta la Grecia. È una Simi in miniatura, solo più curata, intatta e molto più tranquilla. Corro a vedere le descrizioni di Heikell e di Magico Egeo immaginando di trovare qualcosa del genere “Scoprire Halki è come trovare una rosa bianca in una piantagione di te” e, sospiro di sollievo, scopro che entrambi si sono astenuti dalla metaforizzazione di quest’isola. Anzi, direi che non la enfatizzano affatto, Heikell addirittura la definisce una Simi modesta. 
Io ad Halki invece andrei a viverci, in una di quelle belle casette sul porto con terrazza sull’acqua e scaletta per fare il bagno, o più in alto in una delle casette colorate nelle viuzze ombrose che salgono sulla collina. Un’isola a dimensione d’uomo, una mezza dozzina di ristoranti sul porto, un pontile galleggiante a T che ospita una decina di barche, un grande molo per il traghetto sproporzionato che arriva la sera. 
Halki è sulla linea Pireo –Kalimnos – Kos – Rodi, ma è anche collegata con Karpathos e Creta. Quella che arriva, annunciata da un suono di sirena che fa tremare tutta l’isola, è una nave di oltre 150 metri a 5 piani che qui dentro questa piccola baia fa davvero impressione, soprattutto a noi che ce la vediamo far manovra proprio sulla prua della nostra barca al pontile. Se gli si rompe l’invertitore facciamo la fine dei pomodoretti san marzano che attraversano l’autostrada del sole (“stai atte’….” Dice un pomodoretto, “che hai de…” risponde l’altro prima di essere spiaccicati a terra). 
Halki una volta contava una popolazione di 7.000 abitanti, di cui la maggior parte è emigrata in Florida agli inizi del 900. Si dice che sull’isola vivono 14 specie di farfalle, oltre 40 specie di uccelli e 6.000 capre, queste credo le abbiamo incontrate tutte. Guardando la carta decidiamo che, anche se il caldo è notevole, non possiamo perderci una camminata fino all’antica Chorio e da lì al Castello dei Cavalieri di San Giovanni. 
La prima parte però la facciamo col taxi, dico io, visto che dove c’è una strada carrozzabile andare a piedi e da reazionari, no? 10 euro per 4 chilometri in salita a tornanti che giuro se me ne chiedeva 20 glieli avrei dati lo stesso. La seconda parte, l’arrampicata fino al castello convince anche Giovanni che quei soldi sono stati ben spesi. La vista da lassù è bellissima e se pur troppo lontana per essere chiaramente visibile, scorgiamo la nostra barca ad aspettarci al pontile. Torniamo al porto a piedi e ci perdiamo un po’ per le viuzze lastricate di pietra, regalo sembra degli ex isolani emigrati in Florida. 
A pochi passi dalla nostra barca, fuori dal piccolo market sul porto, fa la guardia un grande falco della regina. Con i suoi occhietti gialli ci guarda perplesso, noi ricambiamo con pari stupore. Al tramonto, due coppie vengono sul pontile ad ammirare P'acá y p'allá, il proprietario del grande Sun Odissey accanto a noi sembra piuttosto seccato, si chiede probabilmente come mai siamo tanto più belli di lui. Godiamo di questi momenti come neanche la mamma di Cicciobello poteva godere.

sabato 20 agosto 2011

Simi. La Grecia ci riaccoglie con tanto colore.


Come al solito, mentre navighiamo avvicinandoci a una nuova isola, mi accingo a consultare la nostra biblioteca di bordo che, per quanto riguarda le guide sulla zona, si riduce a due capisaldi (gli unici in commercio, ahi, quanto manca un Mancini sull'Egeo…)
Il primo è il Greek Pilot di Rod Heikell edito da Il Frangente, un portolano che si limita per lo più a descrivere porti e pochi ancoraggi, l’altro è il più discorsivo diario di bordo “Magico Egeo” di Alfredo Giacon che con sua moglie ha navigato parecchio tra Grecia e Turchia.
Ecco l’incipit delle loro rispettive descrizioni su Simi:
“Scoprire Simi è come scoprire una pianta esotica nel deserto. Le case dalle tinte blu, ambra, crema e rosa pastello, strette l’una sull’altra lungo i fianchi ripidi dell’insenatura ….”
(Rod Heikell) – “Arrivare a Simi è come scoprire nel deserto una pianta esotica. La sua architettura è elegante e le sue case sono un’esplosione di colori come l’ambra, il rosa, il crema, il blu e l’azzurro” (Alfredo Giacon)
Argh… Plagio! Alfredo, Alfredo, Simi è un luogo di tale suggestione, di tale incomparabile bellezza che non posso credere non le siano venute altre metafore in mente tanto da doverla copiare di sana pianta dal Greek Pilot. Peraltro, poi, non mi sembra neanche una metafora così calzante, l’ultimo modo in cui definirei Simi è “pianta esotica”. (Ma serve poi una metafora?) 
Simi è un’isola splendida, frastagliata, ricca di baie dai colori cangianti e il suo paese (la pianta esotica), rannicchiato all’interno di un fiordo è un raro esempio di un’architettura ellenica pregevole se pur ben diversa da quella cicladica. Case sovrapposte una sull’altra di tutti colori diversi, viuzze ombrose in salita e dall’alto una vista incomparabile sulla Turchia e sul mare che le divide. Di deserto qui non c’è nulla, di esotico, ancora meno. 
Mi secca molto leggere banalità nelle descrizioni, probabilmente perché temo sempre di cadere anche io nella scontatezza e nella banalità in questa cronaca di viaggio. Pur vero che il vocabolario forse non offre parole a sufficienza per descrivere questi luoghi e la continua meraviglia del viaggio, ma qualcosa di meglio di pianta esotica nel deserto si deve poter fare. Entrambi gli autori, vorrei approfittare del contesto per pregarli di evitare dichiarazioni come “fondale discreto tenitore quando l’ancora ha ben agguantato il fondo” o addirittura “il fondale è scarso tenitore, meglio accertarsi che l’ancora abbia ben agguantato il fondo prima di lasciare la barca incustodita”. L’ovvietà è gemella della banalità. Ok, scusate, Rod e Alfredo, non sono stata generosa, in effetti ci siete di grande aiuto in questo viaggio… Anche se… guardate che in alcuni posti si vede che non ci siete proprio stati eh?....
Ma torniamo a Simi, che Giovanni per tutti e 3 i giorni che ci fermiamo qui continuerà a descrivere come una pianta esotica nel deserto. La navigazione da Bozuk Buku è tranquilla con vento quasi assente. Ammainiamo e issiamo con precisione svizzera le bandiere greche e turche sul confine delle acque territoriali. Per prima cosa arriviamo a Seskli, isolotto a Sud di Simi e poi, visto il mare insolitamente calmo, decidiamo di fare il periplo in senso orario per vedere la costa ovest, lato delle isole che in questa stagione, nel dodecaneso, è di solito flagellato dal mare. 
Ci fermiamo in rada a Ag. Emilianos, un doppio fiordo con doppio monastero, uno sull’acqua e l’altro che in realtà è diventato una proprietà privata è a mezza collina. L’atmosfera è particolare, silenziosa, quieta, quasi solenne. Non vedo monaci ma al loro posto parecchie capre. In rada troviamo un bel due alberi d’epoca battente bandiera maltese e ci accorgiamo che è quella che tutti gli inizi e fine estate vediamo ancorata in rada a P.S. Stefano. 
Qui insieme nel centro della pianta esotica, noi e loro. Al tramonto arriva uno sciame d’api, il due alberi va via, noi restiamo. Le api, come di consueto, spariscono appena cala il sole.
Il fondale, come direbbe Heikell, non è buon tenitore, il vento cambia direzione e prima di andare a dormire, decidiamo di spostarci un po’ al centro della baia, fissando anche una cima a poppa su un gavitello di un pescatore. Nel frattempo la luna, poco meno che piena, è sorta e ci tiene compagnia.
La mattina dopo proseguiamo il periplo e navighiamo lo stretto passaggio tra Simi e l’isolotto di Nimos con molta cautela, visto che il canale ha un fondale di 4 metri. Un veloce bagno ad Emborios ed eccoci arrivati al Porto di Simi. “Non ti sembra una pianta esotica nel mezzo del deserto?” dice Giovanni, tanto per non smentirsi. Un omone con maglietta arancione ci aiuta nell’ormeggio, passerà più tardi a chiedere 5 Euro ma non lo vedremo più. C’è una sola colonnina per acqua e corrente e una dozzina di barche ormeggiate lì davanti, ma non c’è problema, basta telefonare a un numero scritto sulla colonnina e arriva Pandelis con le sue doppie prese e le sue prolunghe ed ecco che tutti hanno la loro presa elettrica attaccata in banchina. 
Incredibilmente tiene, non salta la corrente e soprattutto non esplode l’intero molo, una pianta esotica abbrustolita non farebbe la stessa impressione. Nel giro di mezz’ora arriva anche l’autocisterna del gasolio e noi siamo felici e satolli di energie di tutti i tipi, quelle personali invece le disperdiamo nell’ascesa della pianta esotica fino alla sommità della collina circostante, le temperature, quelle sì, sono africane.
La costa est di Simi è caratterizzata da alcune delle più belle baie del Dodecaneso. Tra tutte, consigliamo Ag Georgiu, anche detta Dysalonas, incorniciata da alte rocce bianche e una bellissima spiaggia di ciottoli. Incontriamo Gioia e Aldo che con il loro MySong, un Nauta 54, stanno facendo charter con un gruppo che sbarcheranno presto a Rodi. Ripenso a pochi mesi fa, quando con Gioia immaginavamo i nostri rispettivi viaggi sedute a un bar di piazza Belle Arti. Loro hanno portato a giugno la barca a Samos con una navigazione veloce e senza soste e sono qui a far charter da fine luglio a metà settembre, poi la lasceranno qui, al marina di Leros a svernare. Quel che facciamo noi è un po’ strano, di solito quando uno porta la barca fino a quaggiù lo fa per lasciarcela per qualche anno, raggiungendola 2 o 3 volte l’anno con un comodo volo charter. 
I motivi sono tanti: prima di tutto le distanze che in barca significano settimane, poi il costo visto che qui in Grecia il posto barca annuale costa un quinto di quanto costa nella nostra bella Italia così ostile alla nautica. Piacerebbe anche a noi, poter tornare con un volo di un’ora e trovarci direttamente qui dove abbiamo messo 3 mesi per arrivare. Però la nostra P'acá y p'allá ce la riportiamo a casa, o meglio, speriamo che a casa ci riporti lei. L’abbiamo appena adottata, non ci sentiamo proprio di passare del tempo lontani da lei e poi c’è il generatore eolico da mettere, i pannelli solari, le vele nuove da fare, il lavoro da trovare per pagare tutto questo….. Magari il prossimo anno, chissà. Il prossimo anno la portiamo fin qui e poi magari la lasciamo a Kos o a Leros. Per ora ci piace saperla vicina. 
Per finire, immancabile a Simi è una sosta nella baia di Panormitis, un ansa a Sud Ovest completamente chiusa e riparata da tutti i venti, dominata dal monastero bizantino omonimo. La rada ha un discreto numero di barche a vela ancorate, al moletto si alternano i pescatori locali con un paio di motoscafi turistici; a terra, anziani passeggiano sul lungomare davanti al monastero di cui una parte è destinata al turismo, una sorta di colonia estiva molto piacevole. Domenica mattina, la messa dura quasi 3 ore.
Mentre leggo in pozzetto sento Giovanni correre da prua con gli occhi che gli brillano di eccitazione: due signore della barca vicina, nuotando accanto a P'acá y p'allá, parlavano di lei. “Certo che però il Grand Soleil è davvero bello, eh mammì?” ha sentito dire dalla più giovane delle due. Visto? A indossare la bandiera francese senti fare dei commenti che ti regalano una gran bella soddisfazione e che magari, se sapessero che sei italiano, per pudore non farebbero o non suonerebbero così sinceri. Quel “Eh mammì?” sostituirà il pianta esotica nel deserto nelle conversazioni di Giovanni dei prossimi giorni.

mercoledì 17 agosto 2011

Gocek, Marmaris e Karaburun, il trampolino per la Grecia.


A Fetiye prendiamo una decisione: questo punto nave sarà il più a Est del nostro viaggio. Decidiamo quindi di non proseguire verso Kas, e il Golfo di Kekova ma di risalire la costa fino a Karaburun e poi rientrare in Grecia. Un po’ ci dispiace non andare a Kastellorizo, l’ultima del Dodecaneso proprio di fronte a Kas, ma ci siamo già stati 20 anni fa quando sul lungomare i bar trasmettevano 24 ore al giorno il film di Salvatores “Mediterraneo” che aveva appena vinto l’oscar.  Per quanto nei nostri ricordi la piccola Kastellorizo sia stupenda e il golfo di Kekova sia descritto come la parte più bella della costa turca, ci rendiamo conto che la distanza e la risalita controvento non valgono il viaggio.
Lasciato il marina di Fetiye, navighiamo un po’ nel golfo  e facciamo qualche bagno nelle cale costellate da tombe licie per poi andare a passare la notte di fronte al vivace paesino di Gocek. Anche qui, pur non stando in porto, la preghiera del muezzin ci tiene compagnia.
Usciti dal grande golfo di Fetiye, ci regaliamo un bagno davanti a una spiaggia bella e selvaggia: è di nuovo mare, o quasi, l’acqua resta poco limpida ma siamo soli, i fondali sono ridotti e le temperature più basse.
Marmaris, rannicchiata al fondo di un altro grande golfo, è la gioia di chi va per mare: un profluvio di shipchandler e vari negozi di attrezzatura nautica che te li sogni persino a Genova o a La Spezia. Acquistiamo un’ancora che fungerà sia da ancora da scogli che da ancora di rispetto, una nuova lampadina a led per il pozzetto e vari articoli più o meno indispensabili in un fantastico negozio americano West Marine, costoso ma fornitissimo. 
Anche qui il marina è efficiente, cominciamo ad incontrare italiani, è da parecchio che non sentivamo la nostra lingua. Non ci riconoscono, noi battiamo bandiera francese e il nome della nostra barca è spagnolo. Giovanni che da qualche settimana attraversa una fase di orgoglio patriottico vorrebbe mettere sulla sartia di sinistra la bandiera italiana, non glielo permetto perché fa molto charterista e poi non ho alcuna voglia di dichiarare la mia nazionalità, non che mi piaccia apparire francese, ma quella la dobbiamo indossare per forza. E poi non vedo perché abbondare di informazioni. 
La barca comincia a dare i segni dell'avventura che ha vissuto in questi mesi e soprattutto della traversata da Creta a qui, c'è sale ovunque, fino in testa d'albero e, anche se sembra paradossale per una barca, il sale non fa tanto bene alle sue parti di acciaio. "Bisognerebbe salire in testa d'albero e tentare di pulire almeno un poco" dice Giovanni. L'impresa mi piacerebbe di più se potessi abbondare nell'uso dell'acqua che mi porto su con il tubo, ma alla nostra destra e alla nostra sinistra ci sono altre barche e non apprezzerebbero la doccia di sale e sporco che piove sulle loro teste. Cerco di fare un'operazione chirurgica con spugna e solo qualche filo d'acqua ma grazie anche a quel poco di vento la barca alla nostra sinistra quando ho finito ha delle belle chiazze. Almeno, complice la nostra bandiera, non potranno dire "i soliti italiani...". Propongo a Giovanni di offrire ai vicini le scuse e un lavaggio della loro coperta ma lui, fedele al suo credo "negare anche l'evidenza" mi dissuade dicendo che è una barca charter e a loro non importa. In effetti sono rimasti stoicamente in pozzetto senza apparentemente accorgersi di nulla...
Continuando la risalita della Turchia, scorriamo il promontorio a sud della grande penisola della Datca, dentro le cui braccia è adagiata l’isoletta di Simi, nostra prossima meta. Ci fermiamo per una notte in un bell’ancoraggio solitario in una cala senza nome a nord di Kumlu Burnu dove sperimentiamo con successo l’ancoraggio con la seconda ancora a poppa ben incastrata da Giovanni in uno scoglietto. Verso sera, mentre stiamo preparando la cena, ci raggiunge un pescatore con la moglie che si ancora accanto a noi, ci urla qualcosa che può essere indifferentemente un insulto o un affettuoso saluto, alla fine decidiamo per la versione positiva. Sorge la luna poco meno che piena e stiamo così, vicini ma non troppo in questo sperduto angolo di mondo, noi con la nostra matriciana e i nostri compagni di rada con una pita e meze (antipasti vari) che mangiano con le mani. La signora ha un vestito lungo e un foulard in testa. Peccato non poter comunicare, comunque condividiamo uno scenario stupendo e una notte illuminata. Poi all’alba il pescatore salpa per ritirare le sue reti.
Bozuk Buku è un fiordo profondo e molto frequentato subito a sud del capo di Karaburun, in alto le rovine dell’antica città di Loryma talmente ben conservate che visitandola ci chiediamo se non sia stata ricostruita. Qui siamo in tanti, molte barche di charter e caicchi ma la baia è grande e non ci si dà fastidio. Girano per le barche ragazze su piccoli motoscafi che offrono parei e teli da bagno da hammam. Sul catamarano vicino a noi un gruppo di signore americane inizia una trattativa da suk indemoniata, non riesco a capire come va a finire ma mi sembra che acquistino molto poco rispetto al tempo che hanno fatto perdere alle ragazze. Provo sempre un certo imbarazzo ad assistere alla trattativa fatta dagli occidentali su oggetti che hanno di base un costo irrisorio, si comportano esattamente come suggeriscono le guide turistiche, forse andrebbe tolto questo paragrafo dalle guide, a me sembra una gran cazzata dire che è costume trattare, che è una usanza e che la popolazione locale si aspetta questo tipo di manfrina. Il prezzo che viene proposto è di 3 lire turche a telo, vale a dire poco più di un euro. Trattare mi suona indecente. 
Si avvicina a noi una di queste, una bella ragazza cicciottella con un bel sorriso da persona buona, non insiste quando le dico che non ci servono parei, chiede con discrezione se gradiamo del pane fresco (village bread) domani mattina, le dico di sì e  concordiamo l’ora. La mattina dopo, appena esco in coperta, la trovo lì a 100 metri discretamente in attesa del nostro risveglio. Dove c’erano i parei, ora ci sono le grandi forme di pane caldo. Notando la bandiera mi saluta in francese e mi chiede come va, resta sorpresa della mancia e ringrazia sempre in un francese che a me sembra perfetto ma questo non vuol dire. Non tratto sul costo del pane e le lascio una mancia equivalente al costo, non mi sembra offesa, forse lei le guide turistiche non le legge…Bell’incontro, mi commuove. C’è una delicatezza e una serenità in questa poco più che ragazzina ben lontana dalla furbizia che ho letto negli occhi dei turchi visti fin qui.

sabato 13 agosto 2011

Fetiye. Sul ponte sventola bandiera turca.


La Turchia ci appare come un paese scandinavo con temperature africane. Arriviamo al Golfo di Fetiye con un bel mare formato che, pur con venti deboli,  diventa via via più agitato, mentre approcciamo Kurdoglu Burnu, il capo Ovest del golfo. Entri dentro questa grande baia e ti ritrovi a navigare in un lago calmissimo, costellato di isole, fiordi e canali; ti sembra quasi di stare nell’arcipelago di Stoccolma. Siamo impressionati dal numero di barche che contiamo, stimiamo che in tutto il golfo ce ne siano almeno duemila. Non so se sia sproporzionato il traffico nautico qui o se siamo noi, da troppo tempo a digiuno di compagnia per mare. Certo è che le due cose messe insieme ci lasciano abbastanza storditi. Grazie al cielo, il tasso di presenza di barche a motore è ridotto al minimo, saranno il 3/5% massimo del totale, per il resto barche a vela e caicchi rumorosi. L’atmosfera è lacustre, lo scenario bello ma fin troppo organizzato. Come nei laghi, le profondità sono molto rilevanti e a pochi metri dalla riva i fondali scendono rapidamente a 100 metri, obbligandoti ad ancorare fissando una seconda cima a terra. 
Il risultato visivo è vicino a quello urbano, la costa è puntinata da barche che mi sembra corretto definire, ordinatamente parcheggiate, mentre il centro delle baie è rigorosamente vuoto. Per noi, abituati ad arrivare in ampie baie vuote, gettare l’ancora dove ci pare sapendo che terrà, questo tipo di attività è faticosa.  Nelle altre barche notiamo uno al timone, uno all’ancora e almeno due a portare la cima a terra con un gommone. Noi dobbiamo cavarcela in due, quindi l’operazione è più lenta e allo stesso tempo più laboriosa e concitata. Alla fine ci siamo anche noi in questa cartolina, ordinatamente parcheggiati come gli altri. Viene quasi spontaneo, terminata la lunga procedura di ormeggio, cercare un parcometro per pagare la sosta. Inoltrandosi nel golfo per raggiungere il marina di Fetiye, l’acqua diventa palude, ferma, fermissima. A questo punto ci appare comprensibile e condivisibile il fatto che in Turchia sia obbligatorio per le barche avere il serbatoio delle acque nere a bordo e lo scarico in mare sia severamente sanzionato. In parole più semplici, penso che una cacca scaricata in queste acque immote potrebbe diventare facilmente centenaria prima di dissolversi.  Perdiamo quindi limpidezza, per quanto bello nelle cale più esterne e ventilate del golfo, il mare qui ha proprio l’aspetto lacustre, fondali vellutati e acqua lievemente torbida e limacciosa. Avrete capito che ci sentiamo decisamente più Greci che Turchi. 
Ora però, bisogna che spendiamo una parola a favore di questo Paese che ci ospita. I marina turchi: precisi, efficienti, organizzati. Hanno un costo quasi doppio rispetto a quelli greci ma anche pari alla metà di quelli italiani. L’efficienza però è svizzera. Gli ormeggiatori ti attendono all’ingresso del porto, ti portano la cima del corpo morto col gommone e si offrono di salire in barca per aiutarti nell’ormeggio. Il tutto rapidamente e con la massima perizia e disponibilità. Il marina di Fetiye è un quadrato di pontili galleggianti, i bagni sono sempre perfettamente puliti, e sui lavandini ci sono i vasi con i fiori, la musica nelle docce, le laundry efficienti. A due passi a piedi, anche se con temperature vicino ai 35° sembrano di più, c’è il paese con il suo bazar e le sue viuzze colorate. Sul fianco della montagna, illuminate di notte, le antiche tombe licie. Ogni 3 ore circa, senza sosta anche durante la notte, in filodiffusione il muezzin recita la preghiera oppure si lamenta per il mal di pancia, l’effetto finale è molto simile. Dopo un paio di notti, apprezzi la tua religione che si limita a cantare nel chiuso delle chiese.
La preghiera stereo del muezzin si mescola nel paese di Fetiye con la musica internazionale trasmessa dai locali, non ho visto nessuno prendere il  tappetino e pregare, né interrompere le proprie attività, è come se fosse un semplice rintocco di campane, nulla di più. Se pensavamo che con l’arrivo in Turchia avessimo perso il vento, all’alba ci siamo dovuti ricredere. Ci sveglia un'unica continua raffica lunga un’ora che ha gettato nel panico l’intero marina: i caicchi ormeggiati all’esterno del pontile sono fuggiti via velocemente, le barche all’ancora nella baia sembravano formichine impazzite, i mitici ormeggiatori in gommone volavano a destra e sinistra salvando barche con ormeggi non sufficientemente tesi. 
P'acá y p'allá, invece, resta ben salda al suo ormeggio, ci guarda appena svegli e sembra dirci “fatevi un bel caffè che qui ci penso io”. Per curiosità, guardiamo l’anemometro e scopriamo che il vento ha toccato la raffica record di oltre 74 nodi, ci sembra incredibile, probabilmente un mulinello in testa d’albero, a noi sembravano solo i nostri ormai ben conosciuti 40 nodi. Il tutto dura un’ora, non di più, poi il vento si spegne completamente e il muezzin riprende a cantare.
A Fetiye troviamo Captain Eddy, simpatico filibustiere che detiene il monopolio delle riparazioni nautiche, a cui affidiamo il nostro genoa per la realizzazione di una nuova banda UV ad un prezzo che sarebbe ragionevole in Italia e che in Turchia è decisamente esoso. Ma trattare non è il nostro forte e non tentiamo nemmeno di farlo. Rispetto ai Greci, i Turchi sono chiaramente più furbi e meno sentimentali, vale a dire, come possono ti fregano. Altri 120 euro li regaliamo a un altro filibustiere, l’agente che fa per noi le pratiche per il Transit Log, un visto di ingresso indispensabile per navigare in Turchia. Se avessimo fatto da soli ne avremmo spesi 50 ma lui ci ha messo un’ora mentre si narra che chi ha provato a fare da solo si è perso tra i vari uffici in cui si è costretti ad andare, distanti ovviamente chilometri uno dall’altro, e sia ancora in attesa del famigerato documento.
Imbottiamo i nostri portafogli (si fa per dire) di lire turche, acquistiamo una chiavetta internet turkcell e siamo pronti a partire, consumare velocemente un po’ di Turchia per tornare altrettanto velocemente a casa, ovvero in Grecia.