venerdì 25 luglio 2014

Rodi. Passaggio a Mandraki.


Ci sono posti dove noi, di solito, non andiamo. Sono i luoghi a maggior densità di traffico, storicamente turistici, hub strategici del trasporto vacanziero estivo. 
A terra, l'aspetto internazionale prevale sul locale, le insegne in inglese su quelle in greco, il rumore sui suoni, i colori dei vestiti sui colori della vegetazione. Visto dal mare, sono quei porti dove trovare posto è un miracolo che si realizza solo a patto di litigare. Non son posti per noi, ci ricordano lo stress della vita terrestre, ci immergono in un prepotente andirivieni di barche che insinua la triste verità che il mare non è solo nostro. E questo, per quanto sia un concetto giusto, a me non piace per niente.
La Moschea di Solimano
Per tale motivo, in 4 anni di navigazione egea, non ci siamo mai fermati a Mandraki, il porto di Rodi. Non ci siamo mai neanche passati vicino, abbiamo fatto in modo ci sfilasse di lato con gli occhi puntati sull'altrove. E non ci saremmo fermati neanche quest'anno non fosse stato per un messaggio del caro Max Vecchietti. "Se andate a Rodi e volete fermarvi a Mandraki, chiama a nome mio Fotis, se lo avvisi in anticipo e eviti il week end vedrai che ti trova posto".
In effetti, il serbatoio piange l'esiguità di gasolio, abbiamo poi una meta distante 65 miglia, Kastellorizo, e nessuna voglia di passare in Turchia. Il nostro solito "Rodi, per carità" diventa quindi un "Rodi, perché no?". L'ultima cosa che mi convince definitivamente è la voce di Fotis. Gentile, ma non gentile come diciamo sempre, proprio gentile, nelle sue molteplici accezioni di "garbato", "amabile", "amichevole". Esattamente come sono sempre i greci che incontriamo, solo un filino di più, quel filino che si nota e ti rimanda indietro calore attraverso una linea telefonica. A questo punto, penso, regaliamoci 2 giorni a Mandraki, 1 per occuparci della barca e uno per la cittadella.
Il mare da una porta della cittadella.
"I'll wait for you" dice Fotis in chiusura della nostra telefonata e ho come l'impressione che le sue frasi abbiano il suono del significato originale e non della convenzione. La voce di Fotis è un filo sottile che ci tira a sé e che ci strappa con meno violenza dalla fabbrica del vento di Karpathos e Kassos, quel cortile fantastico, indiavolato e dimenticato che abbiamo eletto a casa per una ventina di giorni.
La rotta da Karpathos a Rodi è abbastanza tranquilla, ben diversa da quella vissuta nel 2011 dove fummo così ingenui da arrivare al sottovento di Rodi con il solo fiocco rollato. Subito dopo la punta sud il vento, già piuttosto violento in mare aperto, si incattivì a dismisura, ci spaventammo, provammo a chiudere il fiocco ma l'avvolgitore era bloccato.
Costa sud di Rodi, la spiaggia a ridosso di Ak Vigli
Attimi di panico e difficoltà nell'ammainarlo che significarono tempo sufficiente a trasformare in coriandoli la banda UV. Questa volta ci arriviamo invelati il giusto, con una mano di terzaroli alla randa e il fiocco non stritolato ma pieno. Il rinforzo è comunque notevole ma chiudere un fiocco avendo una randa dietro il quale sventarlo è affare assai più semplice da gestire. Detto questo, quasi come omaggio all'evento clou del nostro primo viaggio, riesco a far volare in acqua la maniglia del winch esattamente nello stesso punto dove lasciammo coriandoli di banda UV nel 2011. 
Legni portati dal mare a Vigli
Entrambi dobbiamo aver percepito questa magica assonanza perché nessuno dei due accenna alla possibilità di tentare il recupero, pur trovandoci in acqua bassa su fondale di sabbia e con una limpidezza incredibile. Lo consideriamo un obolo per grazia ricevuta e tiriamo fuori dal gavone una maniglia di scorta.
3 anni fa, mentre tentavamo di ammainare il fiocco, avvolti nel frastuono dell'attrezzatura che protestava e nel boato di un vento che avevamo appena imparato a conoscere, il mio cervello da qualche parte registrava l'informazione che quel putiferio stava avendo luogo in un angolo di mondo incredibilmente bello. 
"Fermiamoci qui!", penso, qui dove non ci sono più i surfisti che si affollano sulla punta di Prassonisi e dove ancora non c'è traccia delle orrende opere dell'uomo che, con tonnellate di cemento, hanno fatto scempio di Rodi neanche fosse un pezzo di Turchia. Fermiamoci qui, dove la grande isola dà ancora l'illusione di essere un luogo remoto.
All'ancora sulla costa sud di Rodi
E così, a 3 miglia a Est della punta sud di Rodi, troviamo una bella spiaggia di abbondante sabbia con duna deserta retrostante e la protezione di un piccolo promontorio. A terra un grappolo di persone sparpagliate, meno delle dita di una mano. Il turchese dell'acqua è quasi infinito. 
Di nuovo, la suggestione di sabbia sotto i piedi, ma qui è diversa da Armathia, è colore dell'oro scuro, meno fine, più pesante. Dietro la riva diventa deserto, punteggiato di cardi e ginepri, di rocce appuntite e di macchia mediterranea. 
Questa Rodi e questa sosta sono la nostra vitale anticamera con la civiltà, chiamiamola così, dei luoghi a normale densità di abitato.
L'imboccatura del porto di Mandraki
All'arrivo nel porto di Rodi, Mandraki, fa impressione pensare al Colosso di Rodi, una gigantesca statua del dio Helios innalzata all'ingresso del porto con un piede su una colonna e uno sull'altra e le imbarcazioni che passavano tra le sue gambe divaricate.
Era il III secolo avanti Cristo, la statua durò un millennio, fu fatta a pezzi dagli arabi nel 600 d.C. e se ne perse ogni traccia. Ora al posto delle gambe del dio Helios, sulle colonne ci sono due cervi.
Eppure la suggestione di questa statua c'è anche oggi. Invece del dio Helios,  c'è il grande capo George,  il boss di Mandraki, il boss di Fotis, il boss di tutti i i naviganti che vogliono trovare un posto. È lì,  all'entrata del porto con la postura simile a quella del dio, gambe divaricate e al posto della fiaccola un cellulare. 
La porta Marina sulle mura della cittadella
Lui è sul bastione di sinistra, con tutte e due le gambe: la suggestione non può far nulla sulle dimensioni, il grande capo non è alto 32 metri e non ha gambe così lunghe da mettere un piede a sinistra e uno a destra dell'imboccatura.
L'accoglienza di George è sintetizzata in un urlo al nostro indirizzo e in un doppio gesto: avambracci incrociati a X e successivamente una mano a fare il gesto della conversione a U. 
Traduzione: "Non c'è posto, iatevenn' uagliò". L'autorevolezza di George è tale che convince Giovanni per un attimo a ubbidire, poi torniamo indietro, ci avviciniamo e dico la parola magica "Fotis. He's waiting for us", memore suo "I'll wait for you".
Dal porto, la nuova agorà e dietro il Palazzo del Gran Maestro
C'è un attimo di concitazione, George parla nervosamente al telefono, mentre noi restiamo in stand by nell'avamporto e poi ci fa cenno di entrare. Un po' seccato ma vinto. Mentre passo sotto le gambe ormai immaginarie del Dio, sento un nuovo urlo di George e vedo di spalle i suoi avambracci incrociati: c'è qualcuno di nuovo da accogliere con "calore".
Fotis è in banchina che ci aspetta con un sorriso. Sale sulla barca vicina per porgermi il corpo morto e si giustifica con un "aspettavo una bandiera italiana, non sapevo foste francesi" per spiegare l'accoglienza di George. 
Il cortile dell'Ospedale dei Cavalieri
In 5 minuti ci allaccia alla corrente, ci porta il ricambio della bombola del gas, chiama l'autobotte per il gasolio. In 5 minuti abbiamo risolto ogni nostra esigenza. Gli porto i saluti di Max e, dal sorriso che fa, capisco che lo considera un amico, mi chiede sue notizie. La faccia di Fotis è fedele alla sua voce: gentile, amichevole. 
Sarà la presentazione di Max a renderlo così caloroso o forse è così di natura, fatto sta che Fotis è la mano che vorresti trovare sempre a prenderti le cime.
Le mura orientali della cittadella. 
L'arrivo a Mandraki dopo giorni e giorni nel paese incantato del mar di Karpathos è a dir poco sconvolgente. Il contrasto tra quel silenzio e questo rumore, tra quiete e caos, tra desolazione e folla. Fa paura e ci lascia inebetiti per diverse ore. Riusciamo a sopravvivere al momento solo dedicandoci alla barca e regalandole un lavaggio con abbondante acqua dolce e sapone. Le nostre energie vanno tutte nell'alternarci allo spazzolone e al tubo dell'acqua. Scivolano via mesi di sale dalla pelle di P'acá y p'allá. Di sale e di sporco, di ossido e di sabbia venuta da chissà dove con il vento. 
Ormeggio a Mandraki
Il porto è strapieno, siamo talmente stretti tra le barche vicine che potremmo tranquillamente mollare gli ormeggi a poppa e a prua e restare immobili. I rumori del porto sono già abbondanti, ci arrivano in banchina quelli della città, delle auto, dei bar. Sì, siamo in città.
A confortarci da questo shock della civiltà ritrovata, arrivano Claudio e Monica, quegli incontri quasi casuali che sono i migliori che puoi fare per mare. Claudio mi aveva scritto settimane fa " il 23 passo a Rodi per un imbarco veloce, se siete da quelle parti vediamoci". Dopo aver parlato con Fotis, mi accorsi che sarebbe stato proprio il 23 il nostro arrivo a Rodi.
La via dei Cavalieri
Una voce dalla banchina e un sorriso: sono loro. Ceniamo insieme, con noi anche i simpaticissimi figli di Monica. Claudio, che  tenendo la barca a Marmaris è un habitué di Mandraki, ci porta alla taverna Indigo dove mangiamo così bene da tornarci anche il giorno successivo. Ma non è solo per questo, le sedie di Indigo sono personalizzate con i nomi delle isole dell'Egeo: ogni sedia un'isola. Mi siedo su Chios e il giorno dopo su Karpathos, cerco con gli occhi la sedia di Gavdos ma non la trovo, non ha abbastanza coperti questa taverna per coprire quel rosario immenso di terre che è questo mare.
Il cortile dell'Ospedale dei Cavalieri
La nostra sosta a Rodi si limita alla cittadella, ce la giriamo in lungo e in largo, camminando per la via dei Cavalieri e ammirando il Palazzo del Gran Maestro e l'Ospedale dei Cavalieri che oggi ospita il museo archeologico. È un luogo magico, ben conservato, dove i compromessi con le attività turistiche sono sopportabili.  Il museo, a cui si accede da un cortile circondato da doppio loggiato su tutti i lati,  ha una ricca collezione di ceramiche e una bellissima statua di Afrodite con le mani nei capelli. 

Afrodite al bagno
Respirando l'atmosfera di questa cittadella medioevale, facciamo guadagnare dei punti nella nostra personale classifica all'isola di Rodi finora da noi considerata troppo grande, troppo turistica, troppo a portata di mano per rientrare tra le favorite. 
D'altra parte, il suo nome non poteva che nascondere qualcosa di unico e speciale. Rodos, la figlia di Afrodite e Poseidone, ossia della bellezza e del mare.

lunedì 21 luglio 2014

Armathia. Apoteosi di sabbia e marmo.

Leggo che nel 1951 erano 8 gli abitanti di Armathia, virgola di isola oggi disabitata che giace 2 miglia a nord di Kasos. Il picco di densità di popolazione toccò però  il ragguardevole numero di 100 unità, quando questo lembo di terra ospitava i minatori nelle cave di gesso.
"Oggi Armathia è solamente una meta turistica per i day trippers che soggiornano nella vicina e sviluppata isola di Kasos" recitano come unico riferimento le guide turistiche. 
A Kasos, qualche cartello sbiadito dal tempo informa della possibilità di gite giornaliere ad Armathia ma, come ho già avuto modo di raccontare, quei cartelli sono sassi in uno stagno in un luogo ignorato dal turismo. Fanno eco ma non è un passaparola, solo il rimbalzo del silenzio. Quel colore sbiadito del cartello e quella piccola scritta "le gite saranno effettuate solo se si raggiunge il numero sufficiente", ci convincono definitivamente che non troveremo nessuno.
L'isoletta di Armathia è la più grande di un piccolo arcipelago e la meta pubblicizzata dai cartelloni ha l'ambivalente nome di Marmaris beach. 
Mentre navighiamo per raggiungerla, con la coperta spazzata dalle onde corte di un mare che viene da ovest, mi chiedo quale sia il riferimento di questo nome: si vuole citare una somiglianza con la rinomata e affollata cittadina turca, affacciata su un golfo lacustre di acque profonde e limacciose? O forse la denominazione è più didascalica e fa semplicemente riferimento al marmo delle sue rocce?
Le immagini che vedete a corredo di questo testo credo forniscano la più esauriente e tranquillizzante risposta al dilemma.
Armathia è apoteosi di sabbia bianca. Può sembrare un incontro quotidiano per chi naviga metà della sua vita. Non lo è. La sabbia in Egeo è un evento raro. Non sul fondale per fortuna, dove ce ne è in abbondanza e ci regala notti tranquille per la tenuta sicura dell'ancora. Ma a terra, di solito, anche quando sembra sabbia, sabbia non è. Sono ciottoli bianchi di varia grandezza o scogli lisci, o sassi colorati dalle mille sfumature. Ci sono notevoli eccezioni, ovviamente, a Creta, a Rodi, poche altre me ne vengono in mente. 
La baia di Marmaris a Armathia è una di queste eccezioni. Incontro nuovamente la sabbia, i suoi pregi i suoi difetti. La piccola duna bollente dietro il bagnasciuga, i piedi che affondano dove l'acqua bagna la riva, l'agopuntura sui polpacci regalo del vento. Le scarpe che bisogna lavare bene prima di riportarle sul tender, il tuffo prima di risalire in barca per togliere ogni granello e non portarselo a bordo.
La mia missione in ogni isola è quella di trovare un sasso che la rappresenti il più possibile per forma e tipologia. Mi lascio dietro le spalle le dune di sabbia quindi e mi incammino verso la parete di lastre di marmo. Scopro un labirinto di roccia, acqua e sabbia che è unico e meraviglioso. Pareti che affondano nella sabbia portata dal mare. Piccole grotte si aprono lungo il bagnasciuga, mi diverto a attraversare sottili passaggi tra una roccia e l'altra. Mi diverto ancora di più quando vedo che io ci passo, Giovanni no. 
Al di là del passaggio, come fosse una piccola porta o una feritoia per gatti, si apre un'altra grande stanza di marmo col pavimento di morbida sabbia. Un'altra lastra chiude parzialmente l'orizzonte dal mare mentre il mare fluisce da piccoli pertugi all'interno. Potrei passarci le giornate a guardare questo ambiente in cui l'immobile del marmo convive con la volubilità della sabbia e del mare. 
Difficile trovare un sasso tra lastre di marmo, ogni volta che ne individuo uno sul bagnasciuga  è solo la punta di una lastra sommersa, scavo intorno finché capisco che non è un sasso, è la terra, non un suo piccolo esemplare. 
Ma poi li trovo, i sassi, laddove la spiaggia finisce e l'incontro tra immobile e volubile lascia i frammenti. 
Missione compiuta, si torna a bordo. 
In questo puntino di sospensione nel nulla di un Egeo che fa più paura di quel che dovrebbe.

domenica 20 luglio 2014

Kasos, l'ultima frontiera dell'antiturismo.

Non so se Kasos non ha bisogno del turismo perché ne ha sempre fatto a meno o se ha sempre fatto a meno del turismo perché non ne ha bisogno. 
Fatto sta che qui, più di qualunque altro punto dell'Egeo toccato, più ancora dell'avamporto libico di Gavdos o della remota Psara o della dimenticata Ay Stratis, si respira un'aria totalmente immune da questa leva economica.
Per raggiungere Kasos, rimettiamo prua a Est in un falso ritorno a casa. 
La breve traversata da Karpathos è completamente diversa da quella che facemmo in senso inverso 3 anni fa, nel nostro primo viaggio, quando eravamo solo di passaggio nella rotta da Creta a Rodi. Allora fummo ingenuamente sorpresi dalla violenza del catabatico sottovento a Kasos che con 50 nodi ci impedì qualsiasi possibilità di avvicinamento alla costa e di disarmo delle vele. 
L'alba su Karpathos da Ormos Skaloma
Spintonati con i fazzoletti di vele che avevamo, scorremmo questa costa in uno stato d'animo che vagava dal terrore puro (il mio) allo stupore entusiasta (quello di Giovanni). Ricordo che, mentre compilavo mentalmente l'annuncio per la vendita della barca e avevo strane visioni di camosci sulle vette montane e illusioni olfattive della lasagna della mamma a Natale, Giovanni strillava per superare la furia del vento "Però guarda, è stupendo!"
Io ero confinata in quel "però" e non registrai che fulgide istantanee di un blu cobalto mischiato al rosso della roccia e al bianco, tanto bianco della spuma del mare.
Verso Kasos.
Ora invece, siamo molto meno ingenui e decisamente più fortunati. Karpathos ci ha abituato - e ci riabituerà al ritorno da Kasos - alla sua fabbrica del vento, le raffiche vissute ieri sono solo frutto della montagna, segno che  non è Meltemi ma un vento tutto suo. Lo dimostra anche il fatto che la notte che passiamo sulla punta sud, zona dove tre anni fa l'effetto venturi aveva preso il testimone dal catabatico senza lasciarci il tempo di respirare,  sia tranquilla. Ci affacciamo timidamente,  guardiamo a Est e richiudiamo lo stopper della drizza. Una traversata a motore con vento nullo e ondina formata, perché il mare ha i suoi tempi e, soprattutto in assenza di vento, vive di forza di inerzia. Sottocosta a Kasos, l'onda cala, il vento è troppo debole per superare la montagna e aggira l'ostacolo prendendo una dominante Ovest. È il momento migliore per fare il periplo dell'isola, il porticciolo a nord può attendere. 
Ormos Skaloma a Est di Ak Troutsoulas
Ci immergiamo per un paio di giorni in una solitudine incomparabile. Qui, come e più di Karpathos, le barche non arrivano. La nomea infernale di questa coppia di isole, anello di congiunzione tra Creta e il medio oriente, dove la terra energica combatte con un vento che arriva rafforzato dal mare aperto, tiene lontano i naviganti che hanno i giorni contati. Gli altri, quelli come noi che navigano a lungo, scelgono periodi più adatti e più consigliati dai portolani per venire qui. Possono farlo perché la loro barca li aspetta in Egeo, possono metterla come prima tappa primaverile o come ultima tappa autunnale. 
Lo scoglio di Vouno, sulla costa sud
Per noi non c'è scampo: un migliaio di miglia almeno scorrono sotto la nostra chiglia prima di poter arrivare qui. E con le miglia, le settimane e i mesi. Allo stesso tempo però, il tempo che abbiamo a disposizione ci permette di restare qui, magari a vele ammainate, in attesa anche lunga delle condizioni ideali per affrontare questo mare. 
C'è chi dice che il vero marinaio è quello che sta in mezzo al mare, con tante miglia di nulla avanti e dietro e nessuna terra all'orizzonte. La vera patente di marinaio, dicono, sia la traversata oceanica. Sarà. Il nostro essere marinai ha invece bisogno delle terre emerse. Il mare è solo il nostro migliore alleato per andarle a trovare. Il mare completa la terra che completa il mare. 
Le scogliere verticali a Ormos Skaloma
La roccia di quest'isola è da togliere il fiato: la costa sud di Kasos è ripide scogliere che si tuffano in mare con ampie e continue franate che aprono piccoli anfratti di sabbia e roccia. Restiamo affascinati dalla conformazione di questa roccia, in alcuni punti stratificata con disegni orizzontali, in altri verticale sul mare come lamiera di ferro. A terra il nulla più assoluto, solo una cicatrice di strada sterrata che compare per piccoli tratti. Nel punto più bello fissiamo la nostra "casa vacanze", chiamiamo così' quei posti dove torniamo più volte nello stesso viaggio.
Veduta dal monastero di Ay Mamas
Si chiama Ormos Skaloma, un lungo tratto di costa esposta, protetta a ovest dal piccolo promontorio di Ak. Troutsoulas. I 200 metri d'acqua verso la riva hanno un fondale di massi, frutto della montagna franato a mare. Più a largo tanta abbondante sabbia su 10 metri di profondità. Un ancoraggio perfetto, sicuro anche se il Meltemi si alza e se le raffiche scendono giù dalla montagna come arpie furiose. Il sole tramonta presto dietro il monte Kapsalos (583 metri) proprio in verticale sopra di noi. Oltre a noi non c'è nulla di vivo. Solo i falchetti che a sera riempiono l'aria di suoni ancestrali. La luna piena si specchia sul monte verticale e lo illumina a giorno. Sono quelle occasioni di vita che rasentano la perfezione e ti interroghi su cosa ti abbia portato a cercarle e a trovarle. Il vento di notte rinforza un poco ma arriva soprattutto sotto forma di suono, la montagna lo ingloba, lo ferma, vince. E vincendo ci protegge.
Costa sud di Kasos
Il mare qui è pieno di vita, faccio un incontro molto ravvicinato con una murena a pochi metri dalla riva, in quella striscia di acqua in cui io di solito mi sento al sicuro dal mio squalo assassino che vive con me - nella mia fantasia, forse, ma non è detto - da quando ero piccina. Rientro in acqua con la maschera e me la trovo lì, con la bocca aperta e lo sguardo cattivo, a pochi centimetri dal mio braccio, pronta ad azzannarlo nella sua morsa mortale. In realtà non punta me ma un pesciolino e, come mi dice Giovanni dopo i pochi secondi in cui percorro una distanza di 4 vasche, la bocca la tengono sempre aperta, serve loro a respirare. Non è cattiva, dice, l'hanno disegnata così. 
I suoi incontri con la vita del mare danno frutti migliori e capovolgono i ruoli: per cena mettiamo in teglia un cefalo e un sarago. 
Ag. Georghios sulla costa nord
Molto al largo, vediamo passare una nave, forse diretta a Creta, forse proveniente da Suez. Toh, il mare è navigabile. Son giorni che non vediamo nulla a parte noi stessi galleggiare.
Ma siamo anche un po' distratti e dimentichi di essere in un luogo dove l'instabilità del vento è cosa certa. Mentre ce ne stiamo in quadrato a scrivere e a far passare le ore del giorno in cui il sole è più alto, i nostri cuscini volano via con un paio di raffiche. Trovarli è impossibile ma ci proviamo: io valuto quanto possano aver galleggiato prima che la piuma d'oca si impregnasse d'acqua e li facesse affondare. Il tessuto per quanto avrà ostacolato l'acqua? E le raffiche, per quanto li avranno fatti rotolare leggeri sulla superficie? 
Veduta dall'alto di Ormos Skaloma
Nel frattempo Giovanni scandaglia il fondale in un improbabile tentativo di trovarli, considerata la vastità del campo di ricerca. Ci rassegniamo, diciamo loro addio, immaginiamo soste in cui potremmo trovarne di nuovi. Ridiamo quasi di noi stessi alla fine, guardando l'immensità che abbiamo intorno, scandagliando le probabilità che avevamo al cui confonto la vincita del Superenalotto parrebbe una bazzecola.
Invece li ritroveremo poi, 5 giorni dopo, a seguito della nostra sosta in porto quando torneremo qui, richiamati da qualcosa che non è facile descrivere ma che sicuramente non era il pianto dei cuscini. Seduto in pozzetto, Giovanni contempla col binocolo la scogliera e la spiaggia alla ricerca dei falchetti ed urla "I cuscini!!!". Erano lì, affiancati, poggiati sulla spiaggia a due metri uno dall'altro, perfettamente asciutti e intonsi, con solo un lieve accenno di salsedine. Il vento li ha portati proprio qui, non sappiamo che giro abbiano fatto, forse erano lì da sempre e non ce ne siamo accorti, forse hanno navigato un po'. Fatto sta che ora sono di nuovo con noi. Bello ritrovare qualcosa che il vento ti ha portato via.
La piccola darsena peschereccia di Bouka a Limin Fry
Ma torniamo al momento della perdita. Dopo due giorni di nulla e di tutto, nell'immensità di una natura selvaggia che ci ricorda la costa meridionale di Creta, continuiamo il periplo e andiamo al porticciolo di Fry, sul versante nord per incontrare la gente di quest'isola.
Limin Fry ha sostituito il porto antico di Emborios, 1 miglio più a Est, che è affetto da maggiore risacca. 
Fry, il porto e la diga frangiflutti
Ci troviamo sul versante dell'isola esposto al Meltemi e da nord arriva una versione di questo vento particolare, rinvigorita da 150 miglia di mare aperto. Praticamente, Kasos è come se si trovasse alla base dello scivolo del Meltemi.    Un lunghissimo molo di sovraflutto protegge l'avamporto e la piccola darsena di Fry, una darsena originariamente costruita per ospitare le barche da diporto ma considerato lo scarso traffico della zona è interamente - e giustamente - occupata da barche da pesca, il traghettino per Karpathos e piccoli motoscafi dei locali. Ci resta solo il molo esterno della darsena su cui è già ormeggiato all'inglese un Hallberg Rassy di un gruppo di italiani che ci aiutano in quello che è uno dei nostri peggiori approcci in banchina. Appena prendi confidenza col mare, qualcosa ti ricorda che non devi mai abbassare la guardia. 
al porto di Fry, sullo sfondo Karpathos
La lunga diga protegge bene ma c'è un discreto movimento di mare all'interno che ci tiene schiacciati sul molo e, con la marea, mette a dura prova le calze già usurate dei nostri 14 parabordi. Solo davanti ai brandelli delle calze, il giorno dopo, decidiamo di mettere un'ancoretta per tenerci un po' discosti dalla banchina e la manovra rivela di ottima efficicacia. Per sanare il senso di colpa della nostra pigrizia, offro ai compagni di banchina di approfittare del bagno di Giovanni per fissare un'ancora anche per loro. "Sicura che non sia un peso?" mi chiede il capitano dell'HR. "Figuriamoci, che vuoi che sia?" gli rispondo, sapendo che personalmente non devo fare alcuno sforzo: non c'è niente di più facile e gratificante dell'essere generosa con il lavoro degli altri. 15 minuti dopo ci arriva a bordo una bottiglia di vino bianco e comincio a pensare di farne un bel business di questa "mia" generosità. 
barca da pesca e campanile a Limin Fry
Gli italiani ci conoscono da internet, hanno letto il nostro blog e seguito i nostri suggerimenti per percorrere la loro rotta che è stata quella del nostro primo viaggio. Finalmente conosciamo qualcuno che ha navigato a sud di Creta e il fatto di essere stati il loro apripista non può che rendermi felice.
Sono di passaggio veloce, imbarchi e sbarchi di equipaggio li costringono a tappe serrate. Vanno via e restiamo soli, con il nostro albero che svetta al centro del paesino, in un contesto tanto poco turistico da apparire surreale.

Ay Triadha, fuori dal villaggio di Poli.
La sensazione che hai a Fry, e a Kasos, in genere è che la popolazione sia totalmente indifferente alla tua presenza. Sono gentili ma non curiosi, ti salutano e ti aiutano se ti serve qualcosa ma devi chiederglielo. Le tre taverne e i pochi bar sul porto sono discretamente pieni di gente locale, la mancanza di turisti non lascia vuoti, tutto ha la dimensione del luogo. Ti senti come trasparente, eppure sai, lo percepisci che la tua presenza è un evento raro. Bastano 3 giorni e ti accorgi che non è così. Ti hanno notato quasi tutti e hanno notato che la tua non è una sosta tecnica. 
Riunione in chiesa.
Bastano 3 giorni e ti considerano parte della loro comunità. Gheorgios ci ferma fuori dalla chiesetta di Aghia Triadha nel villaggio di Poli e ci invita a sederci all'ombra con lui e un anziano signore. Quest'ultimo, sentito che siamo italiani, inizia a parlarci tradotto da Gheorgios di quanto era bella la vita a Kasos quando c'erano gli italiani. "Ora non è più così, ora è tutto più triste". Si sente un forte odore di decadenza nell'isola, unito a una fierezza e un'indipendenza dal resto del mondo che non ha eguali. Si respira nell'aria e si legge negli occhi della gente, la storia difficile di quest'isola che ha vissuto un vero e proprio Olocausto durante la guerra di indipendenza quando un esercito ottomano guidato dal governatore d'Egitto Pasha assediò l'isola  e massacrò 7.000 persone. 
Il cimitero a terrazze di Ag. Marina
Gli uomini vennero uccisi, le donne e i bambini deportati al mercato degli schiavi di Alessandria. I pochi che riuscirono a sopravvivere abbandonarono questa terra e vi fecero ritorno solo moltissimi anni dopo. Ovvio quindi che l'occupazione italiana, coincisa con la rinascita dell'isola, sia ricordata come un momento di splendore. 
Panaghia, uno dei villaggi sulle colline della costa nord
Gli abitanti oggi sono raccolti in una mezza dozzina di villaggi, per lo più sulla costa nord. All'interno, una strada in parte accidentata si inerpica sulle montagne e scende sull'altro versante. La percorriamo con un'auto a nolo e vediamo la Kasos di terra, spettacolare e selvaggia, aspra e bellissima, senza alcuna concessione ai dettami moderni. In tutto il giorno incontriamo si  e no un furgone, un paio di altre macchine e altrettanti scooter. 
Ellinokamara Cave
La scarsa vocazione turistica si recepisce anche dalla segnaletica stradale: i pochi cartelli sono solo in greco, i siti archeologici non sono segnalati e per trovarli dobbiamo chiedere in giro. Eppure ci sono siti bellissimi e particolari, come la grotta di Ellinokamara che la leggenda vuole fosse quella dei Ciclopi di Ulisse, o le Exi Ekklisies (sei chiese contigue con le cupole rosse), o ancora il monastero di Ay Mamas a strapiombo sul mare. Tutti siti chiusi, in fase di lavori o di restauri. 
Exi Ekklisies, a Panaghia
E' come se Kasos fosse dormiente, in attesa che il mondo si decida a guardarla con benevolenza. Loro a noi ci guardano così dopo pochi giorni e uno dei rimpianti più grandi di questo viaggio è quello di non aver aderito all'invito ripetuto da più persone di unirci a loro per la festa del 17 luglio nel villaggio di Aghia Marina. "Siete nostri ospiti, si festeggia tutto il giorno, si balla, si canta, si mangiano tante cose buone" ci dicono Georghios, la fornaia e la gentile addetta del piccolo museo. "Tutto gratis" specificano, quasi pensassero che solo un poveretto viene in visita a Kasos.
Il monastero di Ay Mamas, in ristrutturazione
Ma noi abbiamo fretta di andare, abbiamo quell'urgenza di riprendere il mare che è ormai una malattia conosciuta e che quando si presenta rende impossibile rimandare di due giorni il lasciare gli ormeggi. 

E' la costa sud che ci chiama di nuovo a sé, i falchetti, il silenzio irreale della notte alla fine dello scivolo del meltemi, proprio sotto l'ultimo pezzo di lamiera che ti protegge dalla sua caduta. O forse sono i cuscini. O forse è stato solo un modo di dire a noi stessi che qui ci dobbiamo tornare.

martedì 15 luglio 2014

Karpathos, la fabbrica del vento.

Come sfioriamo la punta di Saria - isoletta a nord di Karpathos, separata da questa solo da un canale stretto 140 metri - sentiamo di avercela fatta. 
La navigazione da Astipalea è stato un bel bordo in poppa piena che abbiamo retto bene grazie alla nostra nuova andatura a farfalla con fiocco tangonato. 
Ora la corsa è finita, siamo arrivati dove più volevamo essere. 
Per chi non ha meta, arrivare è importante. Sembra una contraddizione e forse lo è, ma c'è differenza tra una meta segnata sulla carta e quella che senti nel cuore.
Insieme a noi arriva il vento, con un ex aequo che sarebbe inquietante se non sapessimo di trovarci in un luogo dove le  previsioni contano poco e le statistiche ancora meno.
Il primo urlo oltre i 40 nodi
Le domande che più spesso mi vengono rivolte in questo mio annuale esilio navigante, sono tutte relative a lui, al Meltemi.
"È arrivato?" mi chiedono da lontano. Ma lui, il bastardo, non si sa mai quando arriva. Non si sa mai se è lui o un suo cugino apprendista, se sta giocando un po' o se pianta le tende per non levarsi più di torno. Non ha abitudini precise,  né orari preferenziali e ogni volta che credi di aver trovato una chiave di lettura ecco che lui cambia le carte in tavola e sgretola le tue certezze. Una sola cosa finora non è stata contraddetta: quando il tempo in Italia è brutto con temporali e bassa pressione, il Meltemi se ne sta sereno a leggere un libro, è amabile e quieto. 
La costa rocciosa dell'isoletta di Saria
Per il resto, rinuncio a qualsiasi interpretazione. L'ho visto levarsi all'improvviso guadagnando 30 nodi in 10 minuti, l'ho visto calmarsi d'incanto dopo 3 giorni di burrasca ininterrotta. 
In ogni caso, il punto dell'Egeo dove è meno importante sapere se il Meltemi è arrivato, è questo lembo di mare che ha una denominazione specifica, Il Karpatho Pelagos e che abbraccia quest'isola e la vicina Kassos in una stretta alleanza per difendersi da Creta a Ovest e dal medio oriente a Est. Sopra e intorno, il mare aperto. 
Qui non è il vento che comanda ma la terra che gioca con esso, talvolta complice, altre volte nemica e che in alcuni punti dell'isola riesce a raddoppiare e a moltiplicare gli effetti che si registrano in mare aperto. L'alta montagna di Karpathos è come una spina dorsale gibbuta che si snoda lungo gran parte dell'isola. Da queste parti, se il vento non c'è, c'è lo stesso. È la montagna che lo produce, lo impasta, lo schiaccia giù. Una montagna rumorosa, tonante, che incombe su di te, piccolo umano galleggiante, e ti fa sentire ancora più piccolo. 
Ancoraggio ad Alimounda, fiordo a NE di Saria
Saria è un'isola deserta, fatta eccezione per una grande popolazione di api ben organizzate in colonie di alveari. L'unico essere umano che incontriamo qui è un apicoltore che arriva da Diafani con la sua piccola lancia e si occupa di queste colonie. Un mulo presidia a terra la base, pronto ad essere assoldato per spostare le arnie di zona in zona arrampicandosi sulle rocce dell'isola. Qui si fa miele di timo e la roccia arida è puntellata di queste macchie verdi con fiori viola acceso. Appena giunti a Saria, capiamo che vale la pena chiudere per un po' le vele e vivere questo mare, centimetro per centimetro. Subito dietro la punta nord, si aprono in sequenza due piccole calette ben protette, una più bella dell'altra. Perché scegliere? ci fermiamo in entrambe. 
Muli, insieme a capre e api,
gli unici abitanti di Saria
Quel che colpisce subito e cosa a cui ci abituiamo fin troppo presto è la limpidezza dell'acqua. I fondali sono abbastanza profondi ma ce ne accorgiamo solo fidandoci dell'ecoscandaglio, perché la visibilità su 20  metri è nitida come normalmente su 7. Nella baia di Alimounda, un piccolo fiordo, le raffiche di vento ti spostano da tutte le parti, cerchiamo un punto con sufficiente spazio per girare a 360° e siamo a posto, gratificati da una visuale panoramica in continua evoluzione. Passiamo la notte nel silenzio interrotto solo dal rumore del vento e dai versi degli uccelli. Ogni tanto un raglio del mulo. Ci sarebbe anche modo di fissare un paio di cime a terra, "parcheggiandosi" ordinatamente in uno spazio chiuso come un box auto ma le raffiche continue e un certo senso di claustrofobia ci dissuadono dal tentare l'impresa.
A Palatia, costa est di Saria, dove sorgono le rovine di Nysiros
Nella cala successiva, Palatia, mettiamo invece una cima a terra, operazione che, richiedendo velocità, mi fa superare il problema dell'entrata in acqua a una temperatura inferiore ai 20°. Quando sei concentrata sul portare la cima a terra il prima possibile, salire sullo scoglio e fissarla a un anello di ferro in alto messo da qualche benedetto pescatore, non ti accorgi nemmeno che è fredda, semplicemente non senti nulla.
Saria, oggi deserta, potrebbe aver ospitato in epoca neolitica una delle 4 antiche città di Karpathos, Nysiros. Il condizionale quando si parla del neolitico è quasi sempre obbligatorio, mentre rovine di fortificazioni  e di tombe medioevali sono visibili ancora oggi sulle rocce della baia di Palatia.
Faraglioni a Palatia
Scorriamo la costa est di Karpathos in un dialogo continuo e meravigliato col vento. Mentre le cartine meteo disegnano condizioni di media intensità, la montagna se ne frega e ci scatena addosso raffiche a 40 nodi. Raffiche talmente continue da sembrare un unicum. L'anemometro segna sui 40 ma sono sicura che tra il suo alloggiamento a 18 metri sul livello del mare e la superficie dove siamo noi ci sono bei numeri di differenza e purtroppo, come possiamo leggere sulle creste bianche, non sono a nostro favore.
Il piccolo borgo di Diafani, visto dal mare.
Siamo a vele ammainate, abbiamo stretto i matafioni intorno al lazy bag per ridurre lo sbattere della tela e le vie di entrata del vento. Il fiocco rollato ha 3 giri di scotta intorno, poco elegante, dicono, ma in guerra con gli elementi l'eleganza non c'entra nulla.  Il solo albero e l'altezza dello scafo ci fanno sbandare sull'acqua. In questi momenti, una disattenzione ti uccide: operazioni semplici e quotidiane come calare l'ancora in rada possono diventare temerarie e pericolose se fai un piccolo errore. 
Prova a dimenticarti di fissare lo sportello del gavone dell'ancora  e saprai cosa intendo. Ma non te lo dimentichi, non dimentichi nulla in questi casi, i sensi sono all'erta, le voci si alzano per superare il rumore del vento, i gesti diventano più veloci, l'esperienza aiuta ma non sai mai se sarà sufficiente. E meno male perché guai a pensare che sia sufficiente. 
Barca da gita giornaliera in arrivo a Diafani
Tutto è improvvisamente a mille, come drogato, accelerato all'inverosimile. I colori intorno a noi sono unici: il blu del mare è un'altro blu, con qualcosa di viola. La superficie è bianca di schiuma, un bianco incandescente. La linea dell'orizzonte è polverizzata in vapor acqueo. Ma il mare è calmo, spianato, ogni possibile onda di risacca è in quel momento annientata e sconfitta. 
Ancorare non è facilissimo sulla costa NordEst di Karpathos: sottocosta, dove il fondale è più basso, ci sono scogli e sassi, un'inferno per l'ancora, la catena e chi vive a bordo. Per dar fondo sulla sabbia devi stare più al largo, sui 10 metri di fondale ma a quel punto sei a posto, come il tuo ferro tocca terra si pianta, scende sotto di un metro, diventa corpo morto. E comincia un ballo di brandeggio orchestrato dalle raffiche della montagna. 
Conifere modellate dal vento sulla strada sopra la spiaggia di Apella
Sposto la mia attenzione dal vento alla terra. Questa terra, fabbrica di vento, fucina continua di movimento nella sua immobilità. 
Scegliendo per una volta un ancoraggio precario e disturbato dai sassi, ci fermiamo subito fuori dal porto di Diafani. 
Scendiamo a terra e troviamo una località solo di poco diversa da quella di 24 anni fa. Diafani era allora il passaggio obbligato per salire alla cittadella di Olymbos da cui dista solo 7 chilometri. Le barche portavano i turisti qui e da qui i pullman salivano fino a Olymbos. Per quanto il turismo possa essere cresciuto, la creazione della strada asfaltata da Pigadia a Olymbos ha contrastato la crescita di Diafani che vive oggi un bell'equilibrio. Le poche barche che arrivano al porto ripartono alle 5 e Diafani resta un angolo di quiete spazzato dal vento. 
La costa ovest di Karpathos, battuta dal vento
L'ombra scende presto sulla costa Est di Karpathos ed è anche essa, come il vento, artificiale e figlia di una montagna che tocca picchi di 1.200 metri. Seduta a un bar, guardo l'orizzonte e penso che a 20 miglia da qui, c'è sicuramente quella strana calma di vento che ci ha accompagnato finora e che oggi sembra un affare lontano nel tempo. Dopo solo due giorni di vento forte, ti sembra che faccia parte della tua vita da sempre. Non lo ammetteremmo mai ad alta voce, ma un po' ci mancava.
Il porto principale di Karpathos, Pigadhia
Continuando a scendere troviamo quello che ci aspettavamo: Nel golfo di Pigadhia, porto principale dell'isola, il vento diminuisce di buoni 20 nodi. E ricominci a sentire rumori diversi, i versi degli animali, il po-po-po delle barche dei pescatori. Ci ormeggiamo nella darsena che chiamano "Marina", ben protetta  e dotata di colonnine di acqua e corrente che però ad eccezione di una non funzionano. Sarebbe un marina dedicato alle leisure boat, ma siccome di leisure boat non ne passano molte, è occupato in parte dai pescatori e da piccoli motoscafi locali. Ci sistemiamo lì in mezzo ed è una bellissima sosta, in questo mondo così diverso dal solito, dove il nostro albero, il solo svetta nel golfo.
L'arrivo del traghetto a Pigadhia, visto dal cimitero.
La cittadina di Pigadhia è cresciuta parecchio da 24 anni a questa parte, un buon 2/3 dell'abitato allora non c'era e non sono, ovviamente i due terzi migliori. Il turismo da terra non manca. L'aeroporto con voli charter da tutta Europa è un atout importante che fa di Karpathos una buona meta per chi cerca i posti più remoti a portata di mano. 
Ancoraggio a Fokias bay, poco prima dei 50 nodi.
La terza parte di Karpathos, la parte sud della costa Est, ripropone l'assalto dei venti. Qui la montagna è lontana, la zona è pianeggiante e il fenomeno catabatico lascia il podio all'effetto venturi. Sempre lei la colpevole, la montagna, ostacolo che si erge al normale fluire del'aria, ma qui muove le fila da dietro, si nasconde dietro l'alibi della sua distanza, è più difficile coglierla in flagranza di reato.
Siamo nell'Inferno e nel Paradiso, forse proprio Paradiso perché Inferno.
Relitto a Capo Lingi, sulla punta sud.
Credo, tutto sommato, che gli dei abbiano premiato il nostro passaggio a Karpathos, regalandoci l'incertezza e l'imprevedibilità dei venti che, se da una parte hanno l'effetto thrilling quando questi alzano la voce, dall'altra ci cullano e ci illudono quando si placano per giorni.
Ogni statistica e certezza viene abbattuta: nello stesso posto, bonaccia e 50 nodi a distanza di pochi giorni. Una notte placida, in rada a pochi metri dallo scheletro di un relitto di nave e un pomeriggio di adrenalinica attività con l'anemometro che sembrava un tachimetro di una macchina da corsa. Il meltemi da 0 a 100kmh in 10 secondi.
Alba con relitto a Capo Lingi
A coronare questa Karpathos sopra le righe, un incontro molto ravvicinato con un boeing in atterraggio: stavamo doppiando la punta sud di Karpathos, quando improvvisamente sopra al vento, sentiamo un suono più deciso, più forte, più sordo ancora. A quel che ci è sembrata una distanza infinitesimale, abbiamo visto comparire come dal nulla e dietro le nostre crocette la sagoma di questo enorme squalo volante che puntava una pista di atterraggio a una cinquantina di metri dalla nostra prua. 
La costa est, sotto raffica.
Il tempo di domandarsi se per caso ci fosse un'ordinanza che vietava la navigazione sottocosta in quest'area e il pericolo era già scampato.

Siamo felici di essere tornati a Karpathos, chimera dei nostri viaggi in mare, finora solo sfiorata e stavolta vissuta in pieno. Riusciamo a staccarci da qui, solo pensando di farvi ritorno quando, tra un paio di mesi, la prua tornerà verso ovest.