lunedì 24 ottobre 2016

A Vibo Marina a far scorrere i giorni.


414. In tanti ne sono arrivati l'altro giorno portati da una nave soccorso della Croce Rossa. Il più piccolo ha 4 giorni soltanto. 
È il quarto sbarco di quest'anno a Vibo Marina, vengono portati qui quando l'affluenza nei punti più vicini al recupero, in Sicilia o in Calabria ionica,  è arrivata alla massima saturazione. 
Nel sabato del villaggio di uno strano ottobre molto estivo, cittadini, forze dell'ordine e emigranti si mescolano senza mescolarsi sul lungomare di Vibo. Divisi da un cordone di transenne e strisce di plastica bianca e rossa, improvvisato velocemente. Eppure tutto, nella sua infinita tristezza, sembra a noi di passaggio, così naturale da far pensare che sia un fenomeno assai più frequente.
Vengono dall'Africa, vari paesi, sono uomini, donne e bambini. Sono tanti, apparentemente in buono stato fisico. Alcuni vengono accompagnati dai volontari in delle tende tirate su velocemente, forse per fare un controllo medico. Dalle transenne i vecchi del luogo chiedono "sta bene?", "e il bambino?" 
C'è un'unità di decontaminazione, ma non sembra se ne faccia uso. 
Mi fermo a guardare da oltre quelle transenne che mi posizionano di fatto nella parte del mondo dei fortunati. Come sempre. Non per meriti ma per casualità di nascita.
Devo ricordarmelo, ogni giorno. 
Mi colpisce la loro quiete, forse figlia della stanchezza o del lungo viaggio. O della rassegnazione. 
Da lontano sembra una scolaresca di bambini, seduti a terra, in fila ordinata, con un foglio in mano. Assumono tutti la stessa posizione, seduti con le gambe piegate davanti, qualcuno ha la testa poggiata sulle ginocchia, forse cerca di dormire, ma i più guardano avanti, seduti tutti alla stessa maniera. Fermi, composti, guardano avanti a loro senza forse guardare nulla, senza parlare tra loro. 
A gruppi di una decina si alzano a chiamata, si mettono in fila. Ricevono un paio di pantaloni e una giacca a vento grigi, quasi tutti indossano questi abiti supplementari, forniti per dare loro semplicemente il conforto di qualcosa di più caldo di ciò che hanno addosso ma fa impressione vederli lì in fila ordinata, in divisa, salire sui pullman che li porteranno altrove. Fa impressione a me, perché alla mente questa scena richiama brutte immagini del passato che letteratura e cinematografia ci hanno insegnato a chiamare deportazione. Ma è solo un collegamento istintivo. 
Ho visto tutt'altro. Ho visto uomini collaborare per salvare delle vite, ho visto mani che toccavano altre mani, sorrisi che rassicuravano, braccia che accompagnavano. Ho visto ciò che è naturale vedere che combatteva ciò che è mostruoso vedere. 
Ho visto l'accoglienza. Nei fatti invece che nelle parole. Ed era così chiaro che non c'è altra forma possibile, solo questa. 
Ho visto organizzazione, efficienza. Quella che in Grecia non hanno, non possono avere e alla cui mancanza sopperiscono con la sola umanità. 
Ma il risultato, seppur diverso, è lo stesso: l'uomo dà una mano all'uomo, senza chiedere perché. Ed è bello.

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