mercoledì 28 settembre 2011

Folégandros. Have a nice winter!


Folégandros, un’isola rocciosa adagiata tra Sikinos e Milos, deve essere splendida anche in piena stagione, ma è proprio oggi che sentiamo, per la prima volta, che l’estate è davvero finita. “Closed. Have a nice winter!” corredato dal disegno di tanti ombrellini con la pioggia che cade. È quel che c’è scritto sulla lavagna della taverna di Angali, nella baia di Vathi. Poco più in là, il proprietario di un cafeneion sta facendo gli ultimi lavori di pulizia, ci serve un gelato e un espresso e quando gli chiediamo quando finirà questo ventaccio, ci risponde che qui piove un solo giorno all’anno ma per quanto riguarda il meltemi puoi essere sicuro di trovarlo 11 mesi su 12. 
Supero la tentazione di chiedere quale sia quell’unico mese perché ho il sospetto che sia frammentato e sparpagliato su tutto l’anno. Mentre cavalchiamo le strade dell’isola a bordo del nostro 125 Keeway (non ho idea di che razza di marca sia…) è a questo che pensiamo e realizziamo che forse, dico forse, il fatto di aver sempre sentito dire che il Meltemi dura fino a metà settembre è spiegabile solo con il fatto che forse, dico forse, chi lo ha detto è sempre tornato a casa a metà settembre. Tutto qua.  
 Mentre ragioniamo su questo, il vento che fischia tra le colline di Folégandros se la ride contento. Beh, alla faccia tua caro Meltemi, è stata comunque una bellissima giornata, non puoi dire che ci facciamo mettere i piedi in testa da te, come vedi una soluzione la troviamo sempre. La Chora di Folégandros è davvero particolare, più che da vicoli è attraversata da piazze, piccoli slarghi con tavolini colorati all’ombra di grandi alberi. 
Nel centro il Kastro medievale con le case tradizionali e i suoi vicoli sormontati da bassi passaggi ad arco. È silenziosa e vivace allo stesso tempo, mistica e allegra. Si respira l’aria del fine stagione, anche se la sera i tavolini dei ristoranti sono quasi tutti pieni. Oltre alla Chora la particolarità di Folégandros è la Panagía, la chiesa dedicata alla Vergine Maria arroccata in cima ad una lunga strada in salita che da lontano sembra una scalinata per via dei segni di calce onnipresenti sulle vie in pietra o in cemento Cicladiche. 
Per arrivare a Folégandros, niente aliscafi veloci, solo un simpatico e possente traghetto dell’Hellenic Seaways che ricorda i bei vecchi tempi dei viaggi in Grecia quando si navigava di notte con “posto ponte” per risparmiare su una notte di pensione. Solo che io non ricordavo che i traghetti fossero così puliti, efficienti, tecnologici. Niente a che vedere con i nostri, decisamente molto meglio. Prima di arrivare a Folégandros, la nave fa un velocissimo pit-stop a Sikinos, incredibile la sproporzione tra il colosso navigante e il piccolo molo nel porticciolo di Skala. 
Qui non esiste autorità portuale, l’ormeggiatore è un vecchietto un po’ zoppo che arriva con una Panda e un nipotino di 4 anni, improbabile aiutante nel recuperare una cima la cui sezione è pari a quella della sua gambetta, forse di più. Tempo 3 minuti, il traghetto ha ancorato, fissato la cima a terra, vomitato e ingurgitato una mezza dozzina di passeggeri ed ha ripreso il mare. Vecchio e bambino si prendono per mano e vanno insieme incontro alla sera (tanto per rendere omaggio a Guccini, visto che non è ancora mezzogiorno). 
Il nome del porto di Folégandros la dice lunga: Karavastasi che vuol dire “scalo di navi”. 
Questo è forse l’unico difetto di quest’isola, essa non nasce dal suo porto e il porto ha una vocazione unicamente funzionale. Quando la sera torniamo a Karavostasi per prendere il traghetto siamo solo noi e una coppia di saccopelisti, il traghetto arriva con un’ora di ritardo ma con Forza 8 direi che ci puoi stare.  Tutto intorno è assolutamente desolato, almeno oggi, 28 settembre. Dalle taverne con le luci spente e da un paio di hotel illuminati solo fiocamente si intuisce che un mese fa c'era vita anche qui.
È stato un bene venire qui perché abbiamo potuto constatare che con la barca è meglio starne lontani, lo spazio per ormeggiarsi all’interno del porto è inesistente e il moletto esterno ha una risacca infernale, il resto dell’isola ha un solo ancoraggio parzialmente riparato. Da Ios quindi andremo direttamente a Milos, guadagneremo tempo e supereremo più velocemente questo braccio di mare. Quando si distrae il Meltemi. Se si distrae.

domenica 25 settembre 2011

Santorini by ferryboat. Tanto per non farci parlare dietro.


Giusto perché siamo qui, proprio a un passo, giusto perché l’ormeggio di P'acá y p'allá al porto di Ios è più solido, molto più solido, di quello di casa a Roma, giusto perché l’aliscafo da qui ci mette 40 minuti, giusto perché altrimenti chi li regge tutti quei commenti del genere “Eh però Santorini è un must” o roba così. Non dite “ma nooooo”... lo avreste detto, lo sappiamo, magari se siete miei amici non usate la parola “must”, però con altri termini il concetto lo avreste espresso. E va bene, si va a Santorini. 
In aliscafo come due turisti qualunque. Promette di essere un tour un po’ nevrotico e in effetti lo è, l’aliscafo arriva alle 11.30 e riparte alle 17,30. In mezzo, con l’ausilio di una smart in affitto ci abbiamo sistemato: una corsa alla spiaggia rossa a sud di Akrotiri, un veloce pranzo a Megalochorio con vista sulla caldera attiva di Nea Kammeni, il giro in lungo e in largo (o meglio, in salita e in discesa) di Oia, il borgo a nord dell’isola che immaginavamo, a ragione, essere meno congestionato della più famosa Thira.
Che vi devo dire? Bella è bella, Santorini è spettacolare, cinematografica e mitica. Lo scenario è sicuramente tra i più suggestivi del mediterraneo, come negarlo? Ma dopo tanta selvaggia bellezza di isole che paiono inconsapevoli delle loro virtù oppure semplicemente umili abbastanza da presentarle con under-statement, la Santorini turistica e organizzata mi lascia abbastanza indifferente. 
Sarà che faccio fatica a digerire i cartelli lungo la strada che ti indicano “Beautiful view point” o addirittura “Take a photo!” con tanto di punto esclamativo.
Poi certo, c’è il paesino di Oia che regala scorci incredibili, ci sono le scogliere rosse e nere che è un peccato non poterle vedere al tramonto, ci sono le piscine a picco sul mare, ci sono le isole satellite di Santorini che in realtà sono l’altra parte del cratere, c’è un mare blu e a tratti smeraldo che all’interno del cratere sprofonda a quasi 400 metri… Abbiamo fatto bene a non venirci in barca, altrimenti saremmo stati a lottare con l’ancoraggio senza vedere niente, visto che il porto turistico è insabbiato a 1 metro e l’isola ha fondali vertiginosi come si compete ad un’isola vulcanica. 
L’aliscafo invece, per quanto mostruoso, ha il suo perché: bello andare a sud senza dover poi faticare per risalire a nord, coreografiche le manovre d’ormeggio da guardare da terra o dal finestrino che Giovanni segue con attenzione perché, “si sa mai” dice “magari un giorno farò l’ormeggiatore”. Viaggia a 30 nodi, questo bolide brandizzato Vodafone, ogni tanto si sente un rumore strano sotto lo scafo, forse sono le onde, oppure un branco di delfini che viene triturato, chissà...
Passi accanto alle poche barche a vela che affrontano il mare e ci godi un sacco ad essere qui e non lì, per questa volta e con questo mare. E se li vedi che fanno una straorzata ci godi ancora di più perché non c'è niente di più bastardo di un navigatore che sta al sicuro mentre un'altro è per mare.  E poi, poi c’è la cosa più bella della nostra Santorini: tornare a Ios e trovare P'acá y p'allá tranquilla e sonnolenta al suo ormeggio che dice “bene, vi siete divertiti? Domani però si lavora che io qui avrei bisogno di una bella pulita, eh?”

sabato 24 settembre 2011

Ios. Conflitto di competenze tra l’autunno e il meltemi


Mentre in Italia si continua a disquisire tra un Berlusconi che non molla e un’opposizione che non risolve, qui in Grecia è in atto un profondo conflitto di competenze tra l’autunno che pretende il passaggio del testimone e un vento estivo che, peggio del nostro premier, non accenna a lasciare la poltrona. Poco gli importa di essere ormai fuori stagione, per nulla influenzato dalle voci dei naviganti che lo supplicano di abdicare, proprio come capitan Silvio, il meltemi si appella, con ancor meno ragioni, ad una sorta di diritto divino e resta qui a soffiare dicendo “me lo ha chiesto il popolo”. 
Eccoci quindi noi, fuggiti dalla prepotenza del sistema italico, a subìre senza neanche la mediazione di un Santoro o di un editoriale di Scalfari, le violente e logorroiche discussioni tra due contendenti che non promettono nulla di buono e che non riuscendo a risolvere in un senso o nell’altro la questione, si limitano a imporci il balzello della loro per niente pacifica convivenza: forza 7/8 su tutto l’Egeo con venti di burrasca da Nord insieme a nuvoloni neri, groppi e trombe d’aria e perché no, anche qualche bel temporale. 
E noi? Navighiamo tra una nuvola e l’altra, schivando quelle più nere, controllando sul radar i temporali e cercando di correre più veloci di loro (pia illusione). Puntiamo ad Ios, isola amata dai naturisti che oggi però sono tutti coperti. Le previsioni fin dove arrivano conservano i colori tipici del regime estivo meltemiano e fanno capire che alla lunga il buon Silvio ellenico vincerà anche questa battaglia. Le nuvole sicuramente se ne andranno, il ventaccio non accenna a diminuire. 
Ios, pensiamo, sarà casa nostra per un po’. Ci ancoriamo nella baia di Maganari a Sud e ritroviamo una spiaggia di sabbia abbondante come in Grecia non se ne vedono molte. 
Una lunga e alta striscia di sabbia d’oro, fine, tonnellate di sabbia che se vuoi ti ci puoi anche seppellire sotto, pochi sassi di granito intorno. Tuffarsi in mare non è più così facile, non tanto per la temperatura dell’acqua che è ancora sui 21°, quanto perché fuori comincia a fare più fresco.Tiriamo per la prima volta fuori un golf. Il porto di Ios è in realtà due porti, nel senso che è il peggior ormeggio che tu possa trovare ma anche il miglior ormeggio. Appena arrivati, troviamo posto in un molo più esterno rispetto alla darsena, in compagnia di altre barche a vela. 
Ed è un giorno infernale: il vento soffia costantemente sopra i 30 nodi, il mare sbatte con violenza sul moletto, le barche sballottano e le ancore rischiano di perdere la presa sul fondo ogni minuto. Restiamo tutti in guardia, impossibile lasciare la barca anche per poco. Arriva una barca a noi gemella, un altro Grand Soleil 45 con 3 stravaganti lord inglesi a bordo. Buttano l’ancora un po’ a caso e si avvicinano al molo di poppa tra gli urli dei due capitani delle barche limitrofe. Per fortuna sono distanti un paio di barche da noi, pensiamo. 
Li aiutiamo nell’ormeggio a terra e terminate le operazioni il Lord capitano commenta con un “Perfect” che fa scoppiare a ridere tutti i presenti perché di “perfect” quella manovra lì aveva davvero poco. Dopo un’oretta l’Ovni (una barca d’alluminio) accanto ai Lord, disancora e va con la poppa in banchina, tentando di uscire prende la catena dei vicini sotto la deriva e iniziano sotto il vento malefico e con il mare che frange il moletto le evoluzioni dei capitani delle due barche. Per fortuna, da Pleiades, una bella barca tipo Swan ormeggiata vicino a noi con una coppia inglese a bordo e i loro due gatti, parte il capitano coraggioso che con il suo tender nei giorni a seguire ne salverà diverse di barche che non riescono a manovrare. La coppia di Pleiades è molto simpatica, lei fa spallucce e risponde “Non lo so” quando le chiedo quando torneranno a casa, quest’inverno si fermeranno a Marmaris, il prossimo a Roma, poi andranno ai Caraibi, poi chissà. 
A casa ci vanno con l’aereo, un paio di mesi l’anno, quei mesi cattivi che in barca che ci stai a fare. Passiamo la notte, ben attenti a ogni rumore e pronti a mollare gli ormeggi ed andar via anche se poi, di notte e con questo vento, dove vai? Ecco, è stato l’ormeggio peggiore, quello che ti fa dire, domattina ce ne andiamo, torniamo in una baia e ci mettiamo in rada che quando stai in mezzo a una cala con la tua ancora e basta è sempre molto più sicuro. Invece la mattina dopo, un paio di barche che sono sul versante est del porto lasciano la darsena. 
Lì è tutta un’altra storia e un’altra stagione. Riparato dal vento che arriva smorzato di almeno 20 nodi, con dei bei corpi morti che rendono sicuro l’ormeggio, il molo est è un paradiso per 9 fortunate barche che trovano posto. E noi siamo tra quei fortunati. Avvisiamo subito la coppia del Pleiades che viene a ormeggiarsi vicino a noi. Avere un ormeggio sicuro in porto, vuol dire essere in vacanza. 
Puoi lasciare la barca, girare per l’isola, in questo caso potresti anche prendere un aereo e andare a casa per il week end. Ma qui l’aeroporto non c’è. Però c’è il traghetto e allora, perché no? Magari si va a Santorini in aliscafo!
L’autorità portuale c’è ma non chiede nulla, io vado anche a salutarli e avvertirli che siamo ormeggiati in porto ma non accennnano a chiedere un pagamento. Le chiavette per l’uso dei servizi sono disponibili al ristorante Enigma, proprio davanti alla barca e Stelios, il proprietario si offre di chiamarci il servizio laundry su alla Chora che viene a ritirare i nostri panni sporchi e a riportarceli lavati e stirati 4 ore dopo. Questa è vita!
Certo, preferiremmo navigare, siamo qui per questo ma se proprio navigare non è salutare in questi giorni, stare a Ios è di gran lunga meglio che essere altrove. Abituàti alle toccate e fughe da ogni posto, abbiamo la sensazione di mettere radici qui. E, per di più, ho idea che questo Meltemi, abbia molte più energie del nostro Premier, inoltre pare che per quanto abbia molti vizi, non sia facile processarlo per direttissima. Anche lui. Ancora un paio di giorni e cercheremo di contattare il “suo Ghedini” per provare a condurre una trattativa. Inutile, anche qui confidare in un dignitoso farsi da parte dell’unto del Signore.

mercoledì 21 settembre 2011

Koufonisi. A riveder le nuvole.


“Vanno, vengono, ogni tanto si fermano e quando si fermano sono nere come il corvo, sembra che ti guardano con malocchio.
Certe volte sono bianche e corrono e prendono la forma dell’airone o della pecora o di qualche altra bestia…..” (Fabrizio De André –Le nuvole)
Erano più di 3 mesi che non ne vedevamo una. E quando ritornano ti accorgi che al cielo in fondo mancava qualcosa. Le nuvole. Bianche, grigie, nere, corrono basse sull’orizzonte e sulle nostre teste. 
Le nuvole in cielo sono per Giovanni come la marmellata per le formiche (o la cacca per le mosche). Si ricorda di essere un fotografo e si butta a percorrere sentieri e a solcare il mare con il tender per riprendere tutto ciò che è intorno. La velocità con cui le nuvole prendono forma in questo scenario rende impossibile associarle ad oggetti per un tempo sufficiente a convincersene, corrono veloci e cambiano luci alle cose intorno. 
È un clima che mi fa bene, da sempre. Quelle classiche giornate di fine estate dove l'aria è più tersa, frizzantina, dove riesci a guardare più lontano senza usare l'immaginazione. La traversata da Amorgòs a Koufonisi è impegnativa, con vento forte, soprattutto sottocosta a Keros, una delle piccole Cicladi rocciosa, bellissima e inospitale. Proseguiamo fino all’isola di Koufonisi (altro nome che si ripete, ne avevamo già visitata una di Koufonisi a sud di Creta) che è in realtà due isole: Kato (Koufonisi bassa) e Pano (Koufonisi alta); la bassa, così detta perché è quella più a sud, è un susseguirsi di spiagge e scogliere dorate, ricca di begli ancoraggi protetti e solitari. 
Scegliamo per la notte il tranquillo ancoraggio di Ormos Pezoulia aperto solo a Sud e riparato dall'onda di risacca. Non c'è nessuno, a parte le nuvole, e al tramonto la costa sembra una pepita dorata che brilla al sole. Quando cala il buio, ci accorgiamo di un chiarore diffuso all'orizzonte che nella notte senza luna non riusciamo a spiegarci cos'è. Per un'attimo penso che Los Angeles sia derivata fin qui, e invece no. È Santorini, 25 miglia più a sud , il punto dell'Egeo a più alta densità di frequentazione e di illuminazione. 
Imperdibile è una sosta, anche se con ancoraggio precario, a Est dell'isoletta di Ghlaronisi, tra Kato e Pano, un microarcipelago di scoglietti e mini insenature di sabbia, allo stesso tempo è un dedalo di bassifondi, quindi fate attenzione alla vostra deriva. Uno di questi scogli sembra la sfinge, guarda verso Keros e pare voglia sfidarla. 
Ma a me ricorda anche, non so perché e Giovanni si convince che ho bisogno di una visita oculistica, il profilo di nonna Susi e mi fa tenerezza. A Pano Koufonisi, Pori bay, una spettacolare baia circolare che ricorda la Rondinara corsa, è una grande piscina naturale ben protetta da tutti i venti eccetto il grecale. Istmi, grotte e scogliere tutto intorno. A terra un bar taverna di stile. 
Al largo, ben impaginata negli angoli della baia appare nella straordinaria limpidezza dell’aria Donoussa (isola del diavolo, nomignolo dovuto alla sua violenta ventosità)  che decidiamo di non visitare per evitare di perdere terreno verso est e per non irritare ulteriormente il vento che in questi giorni soffia, appunto, come un dannato. Assistiamo al passaggio dello "Swimming holidays", un gruppo di nuotatori assistiti da un gommone che li segue a passo d'uomo; a bordo, una ragazza che con il fischietto richiama la loro attenzione e li avverte che è il momento della sosta con succo di frutta e merendina. Le chiedo "Is it a race?" sapendo già la risposta. 
Mi guarda ironicamente e dice che se fosse una gara durerebbe anni, visto che si fermano ogni mezzo chilometro e chiacchierano mentre nuotano. Non sembra felicissima del suo lavoro ma è sempre meglio che stare in ufficio a prendere telefonate per un capo dispotico, no?
Ottima idea le piccole Cicladi, adagiate nel braccio di mare tra Naxos e Paros a nord e Amorgòs a Sud, sono dei gioiellini che non hanno nulla da invidiare alla Sardegna o ai Caraibi, allo stesso tempo con un tasso di sviluppo notevolmente più limitato. Seppure le condizioni del vento sono impegnative, qui ci si muove in un arcipelago ricco di ripari, poche miglia e sei a Shinouza, subito dopo Iraklia. A sud le sirene di Santorini ci chiamano ma le ignoriamo, scendere a sud con questo meltemi che non accenna ad andare a dormire equivale a decidere di non tornare più verso casa.

domenica 18 settembre 2011

Amorgòs. Le discese ardite e le risalite e poi ancora in alto.


Partiamo da Levitha all’alba con rotta Ovest per anticipare il vento che, lo sappiamo bene, ci verrà incontro regalandoci quelle belle raffiche violente sottocosta. Passiamo vicino a Kinaros, un isolotto roccioso in mezzo al mare, con un unico ridosso che è affrontabile, come dice il portolano, solo con calma di vento. Adesso, questa sembra anche una bella presa in giro qui in Egeo, la descrizione di tanti ancoraggi da avvicinare solo in caso di vento assente. Ovvero? Quando? Lasciamo stare, noi proseguiamo. 
Da lì in poi perdiamo due nodi di velocità a causa di una forte corrente contraria, contemporaneamente il mare si alza disordinato e ci fa sentire come dentro una lavatrice. Scomodo ma non pericoloso. Ci accorgiamo che un passerotto, o uccelletto similare, si è appollaiato su una draglia e ha deciso di sfruttare il passaggio. E lì resta. Indifferente ai nostri movimenti, al servizio fotografico di Giovanni, al genoa che srotoliamo per stabilizzarci, al rollìo fastidioso che questo mare ci sta riservando. Aggrappato con le sue zampette al filo d’acciaio, spettinato dal vento, ci fa capire che non ha nessuna intenzione di andarsene. 
Non che dia fastidio, per carità. Il punto è che deve essere salito a Kinaros o addirittura partito da Levitha con noi, impossibile che abbia attraversato il mare da Amorgos, così come, non riuscirebbe a raggiungere terra se decollasse ora. Mentre io penso a come fare per evitare che si spaventi e voli via prima di essere abbastanza vicini ad Amorgòs, Giovanni mi chiede se conosco una ricetta per fare l’uccelletto al forno. L’animale lo guarda sprezzante. Ammiro la sua dignità e il suo portamento, ad ogni onda più grande, si gira di 90° senza perdere la presa e praticando con le zampette dei continui movimenti di assestamento. 
Quando ci avviciniamo ad Amorgos e doppiamo l’isoletta di Nikouria per andare a fermarci nel grande golfo chiuso a ridosso, gli dico “ok, puoi andare caro, qui non conosci nessuno probabilmente, ma sopravviverai”. Niente, non ha nessuna intenzione di lasciarci, anzi, ci guarda con aria imperiosa quasi fossimo noi i clandestini a bordo. Neanche il rumore dell’ancoraggio lo spaventa. Solo dopo, quando sto fissando il baffo a prua, mi accorgo che non c’è più, è volato via senza neanche salutare. “Si dice Grazie per il passaggio eh?” gli grida dietro Giovanni ma lui ha altri pensieri ormai, come rifarsi una vita in questa isola e farsi nuovi amici o chissà se c'è da mangiare qui in giro, roba così...
L’ancoraggio bellissimo nella baia di Mandraki ci consola della navigazione scomoda e ci regala una 24ore di relax e silenzio in uno scenario di mare calmissimo, come sempre benedetto da una chiesetta in riva al mare, aperta per chi volesse accendere una candela.
Al  porto di Amorgòs troviamo facilmente posto, affittiamo un motorino e via su per i tornanti fino alla Chora. In qualche maniera Amorgòs sostituisce la Karpathos che abbiamo solo sfiorato quest’anno. 
Me la ricorda a suo modo. L’isola è montuosa, aspra, selvaggia e le sue vette sono spesso avvolte in una nebbia grigia. Salendo su per i tornanti, senti rapidamente scendere le temperature e ad ogni curva il vento gioca a sferzarti con un bel freddino più che autunnale. La cittadella è bella come quella di Patmos ma più vivace e vissuta, tante taverne nelle stradine, vecchietti che giocano a backgammon e bambini che corrono. 
Il vento che si insinua nei vicoli, le terrazze con i tavolini colorati rivolti verso il tramonto, le bouganville che contrastano con i muri in calce bianca, gli scorci  quasi verticali verso il mare e la cantilena “Ella, ella” che senti ad ogni angolo: questa è Grecia e io ormai la sento così familiare che è commovente. 
Al Monastero di Hozoviotiza, tappa che da sola vale un viaggio in quest’isola, è bene andarci la mattina presto quando la facciata è illuminata dal sole. Si tratta di una fortificazione letteralmente incastonata nella montagna verticale che cade a picco sul mare nel versante Est di Amorgòs. Non esiste un modo per descrivere l’impatto visivo se non le immagini. È la conferma che i religiosi, quelli sì che hanno capito tutto della vita. Ci accolgono al monastero in abiti borghesi e scarpe da tennis e terminata la visita ci offrono un bicchiere di Raki e dei loukumades (tipico dolcetto turco). La vista dalla terrazza del monastero toglie il fiato. 
Oddio, anche la scalinata per arrivarci contribuisce. Ma ne vale la pena, davvero. Insomma, il nostro primo impatto con le Cicladi è magico, Ad Amorgòs senz’altro torneremo. Ah, e prima che me lo chiediate… Sì, potrei viverci ad Amorgòs, d’altra parte abbiamo lasciato un amico qui, pennuto, ma sempre amico è.

sabato 17 settembre 2011

Levitha. Entrare nelle Cicladi dalla porta di servizio.


Detto così, pare spregiativo. E invece no. Non so voi, noi ormai lo abbiamo capito da tempo: è dalle entrate secondarie che si vedono le cose più interessanti, è nelle cantine delle grandi case nobiliari che si respirano gli odori più buoni. Non ci siamo capitati per caso qui a Levitha, l’abbiamo proprio scelto come entry pass per l’egeo cicladico. Si è fatto tardi e l’idea di bighellonare a zig zag  per le Cicladi è diventata piuttosto utopistica, per cui scegliamo una rotta Est-Ovest e privilegiamo le piccole Cicladi meno di massa e più vicine ai nostri gusti. Coooosa???? Non andate a Mikonos, Naxos, Paros? No, non ci andiamo, sarà per un’altra volta, o forse neanche. Quel che rimpiango è l’Egeo del Nord, Chios e soprattutto la vicina Psara, le Sporadi settentrionali, la Calcidica, non tanto le più note tra le Cicladi. 
Preferiamo Levitha, poi sfiorare Kinaros e fare rotta su Amorgos. Con grande gusto quindi, anche se poi pagheremo cara la perdita di terreno, da Patmos mettiamo la prua sul Sud pieno, era da metà luglio che non facevamo questa rotta comoda. Navighiamo bene, un po’ a vela, un po’ a motore e dopo un paio d'ore eccoci arrivati. La descrizione migliore per Levitha la rubo a un giornalista che come incipit a un suo articolo confessa che non andrebbe scritto, non andrebbe pubblicizzata Levitha perché è una cosa bella che ad andarci in troppi si sciupa. 
Come dice lui “Levitha è un’utopia fragile, le cose belle vanno amate e rispettate, chi ci andrà dovrà farlo in punta di piedi”. A Levitha, che durante la II guerra mondiale era un avamposto italiano a difesa del Dodecaneso, abita una sola famiglia originaria di Patmos in una fattoria al centro dell’isola. Bravi imprenditori, hanno sistemato una mezza dozzina di corpi morti nella baia sottostante in modo che gli unici possibili avventori della loro taverna, i naviganti, possano lasciar tranquillamente la barca e salire a cena. 
Ed è un piacere, si mangia bene e la passeggiata, o meglio l’arrampicata sulla montagna retrostante la fattoria, vale la fatica. Levitha, nel bel mezzo del nulla, è una suggestiva isola incontaminata e silenziosa, il grande fiordo a sud, oltre alla baia orientale dotata di corpi morti, ha un bellissimo ancoraggio solitario a Ovest con un’acqua limpidissima di mille sfumature di blu e di verde. Mi ci fermerei a vivere qui? 
Forse è un po’ troppo remoto, ma se avessi qualcosa da fare, perché no?La terra è aspra e selvaggia, La famiglia coltiva un pezzetto di terra per il fabbisogno della taverna ma si capisce che è dura, l’isola è una pietraia arida e brulla e l’acqua probabilmente scarseggia ogni anno di più. Ecco, magari potrei mettermi a coltivare un pezzetto di terra per fare conserve, ma poi a chi le vendo? Quel che è certo è che se il mio mestiere fosse scrivere, qui a Levitha l’ispirazione non manca. E saresti al riparo da distrazioni, visto che non vi è campo telefonico né tantomeno rete internet. Chiedo a Manolis, uno dei giovani levithani, se la taverna sarà ancora attiva a metà ottobre per capire se suggerirlo a Gioia e Aldo che passeranno da qui. 
Lui mi dice che loro ci sono tutto l’anno, se ci sono barche aprono, magari si mangia dentro, in casa, visto che tra un po’ fuori comincia a far freddo. Manolis dalla fattoria guarda la baia, quando vede una barca arrivare, scende per i campi con la sua moto Suzuki di prima della guerra, prende il motoscafetto e passa a ritirare i suoi 7 euro per l’ormeggio e a promuovere la sua taverna. Nel resto del tempo probabilmente va a pescare, si prende cura delle capre e delle pecore, coltiva l’orto. A vederlo, Manolis, sembra uno studente di architettura o un musicologo, non noti in lui segni dell’emarginazione che immagini possa vivere. 
Ma poi pensi che quello che è armonico in lui è la serenità di una scelta di vita, che l’abbia fatta lui stesso o che l’abbiano fatta per lui i genitori, capisci che Manolis qui a Levitha ha trovato l’America.

venerdì 16 settembre 2011

Che avranno fatto gli abitanti di Patmos per meritarsi tanta beltà?


C’è da chiederselo, davvero. Perché Patmos ha qualcosa di sovrannaturale. Una magia delle forme, una perfezione sinuosa, un incanto, un’architettura delle luci e delle ombre che la rendono un’isola quasi troppo perfetta. I suoi abitanti sono un popolo di eletti e qualcosa di speciale dovranno avere o aver fatto in una vita precedente.
Anche a Patmos siamo sul percorso della memoria, come direbbe mio cognato Luca. 26 anni fa salimmo alla Chora a piedi, oggi affittiamo un motorino... anche se evidentemente conservo in me qualcosa dell’adolescente di allora, provocandomi una lieve ustione sul polpaccio con la marmitta del nostro Kimko People 125. Basta poco a sentirsi ringiovanire, magari brucia ma ne vale la pena. Ma torniamo a Patmos. 
Avete presente quando sulle guide turistiche non sanno che dire dei posti o hanno terminato la fantasia descrittiva? Be’ potete giurarci, leggerete frasi come “Lasciatevi incantare dalla magia del luogo” oppure “perdetevi nel dedalo delle viuzze silenziose” che poi uno si chiede ma perché diavolo mi ci devo perdere? Non posso semplicemente camminarci avendo ben presente dove sto andando e conservando l’orientamento? Poi capisci. 
Quei redattori sono stati a Patmos; infatti, volente o nolente, nelle viuzze imbiancate della Chora di Patmos ti ci perdi davvero. Ogni angolo che giri, trovi 3 o 4 vicoli che salgono, che scendono, alcuni si infilano giù in cortili improbabili, fai fatica a venirne fuori. La vista dalla Chora ti lascia il fiato sospeso: l’istmo di terra con le casette bianche di Skala, il porto, le dolci colline di verde e roccia che al tramonto si tingono di luci ed ombre e contrastano con il mare blu. 
Potresti restare lì seduto per ore, per giorni senza stancarti di guardare. Patmos è una bella isola da girare in motorino, un buon reticolo di strade  ti permette di passare da un versante all’altro velocemente; ovunque ti fermi,  vedi un dedalo di mare e terre, istmi, rocce a strapiombo, colline regolari. Non riusciamo a visitare il monastero di San Giovanni perché apre solo poche ore al giorno ma pazienza, l’aria mistica la respiri comunque tutto intorno. 
Ai mulini incontriamo una coppia di francesi che chiedono a Giovanni di scattar loro una foto: è divertente vedere come gli spiegano il funzionamento della loro automatica e come controllano che la foto sia venuta, d’altra parte non possono sapere di avere a che fare con uno che il fotografo lo fa di professione. Scambiamo due parole e, come sempre, si eccitano a sentire del nostro viaggio, è divertente vedere come ogni persona è interessata ad un aspetto diverso, c’è chi chiede come abbiamo fatto a lasciare tutto e star via 6 mesi, chi è ammirato dal fatto che riusciamo a portare la barca per un così lungo viaggio essendo solo in due, chi vuole conoscere il percorso. 
L’uomo di questa coppia, invece, immagina solo che sia bello poter andare in barca nudi, vagli a spiegare che spesso indossi 3 strati di pile, vagli a spiegare il vento, quello vero…. Loro sono venuti a Patmos pensando di starci qualche giorno e poi andare a vedere altre isole ma non si sono più mossi da qui. Posso capirli, ma allo stesso tempo non riuscirei a fare una classifica dei posti. Ogni luogo che abbiamo visto ha qualcosa di unico e imperdibile, non saprei scegliere, sono felice di non doverlo fare. 
Il bello dei porti è che scendi a terra, quando capisci che l’ancora tiene, ti allontani per qualche ora, vedi i versanti delle isole battuti dal mare senza prenderti quel mare in faccia, ti siedi al bar a prendere un caffè mentre navighi su internet, insomma fai anche un po’ vita di piazza, se così si può dire. Il brutto dei porti sono i rumori, temevo i motorini sul lungomare e invece quello che ha turbato decisamente il mio sonno è stato il caicco ormeggiato a fianco a noi, una bestia di 30 metri circa, che ha acceso i motori alle 4 e ci ha messo un’ora per tirare su l’ancora e togliersi di torno. 
Cercando di far finta di non essermi svegliata contavo i rintocchi dei pistoni pensando “ora se ne va, ora se ne va”, dicono che dopo mezz’ora sono saltata fuori dal letto imprecando contro il caicco come nemmeno la bambina dell’Esorcista. Dicono. A me sembra di essere stata la solita Milady inglese… Meglio ancorare, sempre e comunque.  Patmos offre degli ottimi ridossi, nelle cale dietro le isolette di Ag. Giorgio o ancor più tranquillo nelle rade di Livadia e di Kambos. Ci teniamo aggrappati a questo pezzo di luna che cala ogni giorno una fettina e che mai come in questo mese ci fa piacere che ci sia.
Il nostro viaggio sta diventando una corsa contro il tempo, l’autunno sta arrivando e noi siamo ancora decisamente troppo a est. Domani lasciamo il Dodecaneso e, finalmente andiamo verso il centro dell’Egeo.