martedì 31 maggio 2011

Tropea. Un piacevole pit stop.

 
Non abbiamo figli, ma penso di provare oggi la stessa sensazione di una madre o di un padre che aspettano che nella sala operatoria un chirurgo finisca di asportare l’appendice o le tonsille della sua creatura. Nel nostro caso si tratta di una banalissima guarnizione della coppa dell’olio. Operazione estremamente semplice che diventa opera da contorsionisti e da esperti di fisica, vista la necessità di esecuzione in meno di un metro cubo di spazio. L’equipe meccanica è all’opera, io li osservo con sospetto e pronta ad aggredirli alla prima defaillance, a tendergli tranelli per saggiare la loro competenza, a controllargli il tasso etilico per essere sicura che abbiano le mani ferme. Giovanni mi spedisce saggiamente a Tropea prima che io possa provocare un incidente diplomatico, contando sul fatto che i circa 100 scalini fiacchino la mia aggressività di quando mi toccano P'acá y p'allá.
Eccomi quindi a passeggiare in paese, in cerca di cipolle, liquerizia, origano e pasta di mandorle. E una copia di Repubblica tanto per gioire della sconfitta del nemico. Da ieri noto una strana e amabile attitudine in questo luogo: nonostante la stagione non brilli certo di presenze turistiche, nonostante la crisi economica ben evidente, nei negozi non cercano per forza di venderti qualcosa, anzi a volte fai fatica a comprare un loro prodotto. Ieri ho tentato vanamente, nel momento di maggior sconforto sull’operazione spurgo prima di essere premiata dalla grande eruzione, di farmi vendere un prodotto all’acido muriatico dalla signora Adelina dell’emporio. Abituati ai furbi venditori che sarebbero pronti a garantirti il successo dell’olio di ricino per sgorgare i tubi se avessero solo quello a disposizione, resti un po’ interdetta dal fatto che Adelina ti dica che nessuno dei prodotti che ha va bene, che devi andare dal ferramenta, lui c’ha quello buono. Poi però si coinvolge letteralmente nel problema e chiama sua madre, che smette la siesta per venire al negozio e dirti di persona che quel prodotto là che ha lei in negozio non è buono, che l’ha usato lei in cucina e le ha fuso tutte le guarnizioni. Mi viene il dubbio, con la diffidenza che ci siamo ormai abituati ad avere, che il prodotto in questione sia miracoloso e non me lo voglia vendere per non rimanerne sprovvista. Macché, ce ne è uno scaffale pieno… Ovvio, vista la pubblicità che ne fanno… Poi la madre di Adelina chiama il marito, per chiedergli se secondo lui è il caso di usare un prodotto o solo strumenti meccanici. E il marito, che non fa l’idraulico e non vende svuotatubi meccanici, suggerisce questa seconda ipotesi. Commossa da un tale disinteressato parere e da una partecipazione così sentita da parte di estranei al nostro problema,  acquisto un viakal, tanto per comprargli qualcosa ma Adelina, mentre fa per consegnarmela tira la mano indietro e dice “Non la userà mica per lo scarico eh?” Garantisco che ne farò solo l’uso consigliato e vado via.
Oggi invece è un’anziana signora del negozietto di prodotti locali a darmi un ulteriore esempio di questa attitudine tutta locale a mettersi dalla parte del cliente pur facendo il venditore. Le chiedo due cipolle e lei me le regala. Le chiedo l’origano in confezione già pronta (€ 2,50) e lei mi suggerisce caldamente l’acquisto del mazzetto che costa meno della metà. Quando scelgo la liquerizia, mi fa presente che quella pura, da me indicata,  costa di più dell’altra. Quando prendo la confezione di pasta di mandorla chiede a me di leggere il prezzo perché lei è senza occhiali e al mio citarle “6 euro”, mi risponde “Sicura? Mi sembra tanto…” Insomma, bella gente. Non vuole vendere a tutti i costi, però vuole tanto parlare un po’. Il problema è che non ci si capisce tanto bene. Ai primi approcci con un locale pensavo fosse asmatico, poi ho capito che il dialetto calabrese è un insieme di aspirazioni e ansimazioni con qualche consonante in mezzo. La difficoltà sembra risiedere proprio nel passaggio da una consonante a una vocale dove si inseriscono questi effetti da debito di ossigeno.  Dopo un po’ ci prendi la mano e diventa tutto molto musicale, ma nei primi momenti pensi che il tuo interlocutore sia affetto da enfisema polmonare allo stadio finale.  Intanto le operazioni su P'acá y p'allá vanno avanti e il meccanico contorsionista continua a rovistare nelle sue budella. Si chiama Nico e viene dalla Bulgaria dove mantiene una moglie, due figli, una nuora e 4 nipoti. Lo sento che parla con il motore e con la coppa dell’olio e mi rilasso, forse se ci parla, ha capito che non è un oggetto ma un essere umano. Non so come mai, ma anche l’ansia per la tua creatura è una cosa che mette appetito (devo ancora trovare qualcosa che ci toglie l’appetito…). A Tropea, abbiamo mangiato molto bene sia da “Baffone” che da “Cecé” dove, sembra poca cosa ma un piatto di verdure grigliate assume sapori e equilibri perfetti mai trovati prima in un piatto così apparentemente semplice.

lunedì 30 maggio 2011

In un colpo solo, liberi da Berlusconi e dalla "cacca storica"

NdA: La foto è di Stromboli ed è stata scelta solo per rappresentare in modo metaforico un argomento che la cronaca avrebbe dipinto in maniera troppo cruda. 
Oggi, in sincrono perfetto con il trionfo della sinistra a Napoli, noi siamo venuti finalmente a capo dell’intasamento dello scarico del bagno di poppa. Non so quale, ma sono sicura che tra le due cose ci sia un nesso, mentre i miei fratelli napoletani si liberavano dell’incubo di una probabile gestione di merda della città, noi ci liberavamo della cacca calcarizzata di 6 anni del precedente armatore (che, pur non avendoglielo mai chiesto, sono sicura fosse leghista).
L’impresa, la nostra, non quella politica, è stata sicuramente tanto suggestiva da meritarne un dettagliato racconto, che credo sarà in grado di apprezzare solo il nostro amico Fabio, un autentico cultore delle operazioni di spurgo fognature. Ma a chi, più sanamente,  intendesse sospendere la lettura, vorrei suggerire di non farlo, lo stasamento di un tubo di scarico del wc può essere una metafora molto significativa dello spogliarsi di tutte le appendici negative che ogni giorno ci portiamo appresso. Quindi siccome la lettura di questo blog è gratuita, mentre uno psicoanalista costa un patrimonio, prendetelo per cortesia come uno sperimentale test per capire meglio noi stessi.
In ogni caso, noi non possiamo esimerci dal raccontarlo, viaggiare per mare è anche questo, sei più nobile, più pulito, più leggero di quando sei a terra ma i bisogni devi farli lo stesso.
Devo premettere che ovviamente, fosse stato possibile, avremmo semplicemente sostituito il tubo di scarico, tappando quello da asportare in testa e in coda e rinunciando, senza averli conosciuti di persona, alla compagnia degli escrementi fossilizzati dei precedenti armatori.
Ma chi è pratico di barche lo sa. Ci sono cose a bordo che dopo l’allestimento finale della barca non è più così facile smontare: una di queste è il tubo di scarico del wc, certo che in teoria è sfilabile ma in pratica non lo è. Quindi, prima raccomandazione per tutti: Trattate bene i vostri scarichi del wc, prevenitene i segni del tempo, le rughe a voi vi rendono più espressivi e affascinanti, ai vostri tubi invece rischiano di creare effetti molto indesiderati.
Il tubo in questione, ha smesso di funzionare probabilmente a causa di un tentativo del cantiere di eliminare con la forza corrosiva i segni delle evacuazioni pregresse (leggasi soda caustica o roba simile). Tali agenti, hanno fatto esplodere concrezioni che, con un po’ di navigazione con mare mosso, si sono ammassate e hanno creato un vero e proprio tappo di cemento armato. Un po’ quel che deve essere accaduto al Vesuvio successivamente a Pompei. Ecco, quel che abbiamo fatto ieri è stato  proprio provocare forzatamente un’eruzione distruttiva per poter proseguire il viaggio più alleggeriti e con l’ausilio del secondo bagno.
Le operazioni hanno richiesto la presenza costante di entrambi i membri dell’equipaggio. Visto che a provocare il blocco intestinale alla barca erano stati gli agenti chimici, abbiamo privilegiato l’uso di strumenti meccanici, dapprima con l’aiuto di una molla idraulica che lavorava bene per qualche metro e poi perdeva forza e si arrendeva all’inesorabile barriera. A quel punto abbiamo deciso di agire partendo dall’altra estremità, con l’obiettivo di far breccia nel muro a colpi di cacciavite, ma ben presto, il cacciavite è risultato troppo corto per raggiungere l’obiettivo finale. “Cosa abbiamo a bordo di lungo e resistente?” ha chiesto Giovanni. “L’asta del tuo fucile” ho risposto io, inferendogli un colpo mortale viste le nobili funzioni da Giovanni attribuite originariamente all’oggetto. E così, ecco trovato un secondo uso, di più sicuro successo rispetto al primo, per un fucile da sub.
Ora il problema di rompere le concrezioni e, in generale di liberare un tubo, è che da qualche parte quello che liberi deve andare. Tale tubo è incastrato ben bene in una sentina molto stretta dove riesci, contorcendolo un po’, ad infilare un contenitore di alluminio (originariamente pensato per cuocere in forno la preda del suddetto fucile). Il problema è che quando allestisci per lo svuotamento non ti chiedi come farai ad estrarre tale contenitore senza rovesciarne il contenuto ad operazione terminata. Il proseguio, quindi, evitando di scendere troppo in particolari,  è stato tutto un susseguirsi di azioni microchirurgiche lievemente odoranti e a tratti tonanti come le piccole esplosioni di Stromboli, ma siamo, diciamo, riusciti ad evitare la tracimazione della sciara di fuoco.
L’esperienza ci ha regalato una consapevolezza che regaliamo volentieri a studenti di medicina, in particolare gastroenterologi e dietologi: il pomodoro sopravvive a Pompei. Le uniche tracce riconoscibili nel magma calcareo rimosso erano appunto attribuibili a bucce e semini di pomodoro.
Concludo questo racconto con un grazie di cuore a chi è riuscito ad arrivare alla fine del pezzo per amicizia o per passione (il caso del nostro amico Fabio e di nessun altro, credo). Per tornare ad un lato metaforico, oggi possiamo dire di sentirci più leggeri e più sospinti verso il proseguimento del viaggio. 

sabato 28 maggio 2011

Stromboli. Terra di fuoco, mare di squali.

  Siamo a Stromboli, avanposto delle Isole Eolie, circondata da profondità abissali. Non avevamo ipotizzato di venirci, non ora, le Eolie erano nella nostra idea, un posto da visitare al ritorno, in autunno inoltrato, quando l’escursione termica tra notte e giorno è inferiore e magari salire fin su al vulcano di notte. Ma alla fine, abbiamo deciso, pisciolino o non pisciolino d’olio, di risolvere una volta per tutte il problema della guarnizione della coppa. Lo faremo a Tropea la prossima settimana. Preferiamo evitare di doverlo fare in Grecia nella difficoltà di capirci con meccanici dalla lingua a noi sconosciuta, per quanto, con il meccanico locale riusciamo a capirci più a gesti che a parole, visto il dialetto di cui nessuno di noi due ha una qualche esperienza. Insomma, visto che dobbiamo aspettare, la condizione è ideale per passare il week end a Stromboli. 30 miglia scarse da Tropea, la navigazione per Stromboli è in assenza di vento totale, mare calmissimo con il profondimetro che segna fisso una profondita definita Last 180, ovvero l’ultima registrata di quelle registrabili. Qui, il mare va velocemente giù, raggiungiamo subito la batimetrica dei 1.000 metri e nell’ultimo tratto quella dei 2.000.
È qui che mi accorgo, ma qualche sentore di ciò ce l’ho da 18 anni, che la mia nipotina Lisa è una ragazza magica. Mi aveva predetto, dopo aver visto le foto della tartaruga e dei delfini da noi incontrati, che il prossimo incontro sarebbe stato con uno squalo. Ed eccolo, qui nel canale tra Tropea e Stromboli, con 2 chilometri di acqua sotto la barca. Piccolo, 1,5 metri circa, ma sempre squalo è, e poi, similarmente a come capita quando incontri un cretino, non importa il cretino, chiediti dove sia e cosa stia facendo sua madre. Giovanni, conoscendo bene la mia fobia per gli squali che mi fa provare un certo timore persino nelle nuotate in piscina, cerca di spacciarlo per un pescespada ma con il pescespada non sentirei la caratteristica musica di sottofondo “dan da dan da da dan” che dai primi anni 70 accompagna ogni mio bagno in acque non sicure (più o meno tutte quelle fuori da una vasca da bagno). Reagisco incredibilmente bene allo shock e con filosofia guardo avanti, ma il bagno oggi non lo farò, questo è sicuro. Arrivati a Stromboli, ci ormeggiamo ai gavitelli di fronte alla spiaggia nera (ancorare intorno a quest’isola è impresa ardua oltre che destinata a essere tentata più volte, vista la conformazione dei fondali che scendono giù velocemente) e scendiamo a terra con il tender per passare la giornata a passeggiare tra viuzze strette, case bianche, spiagge nere, piante grasse, esplosioni di bouganville viola e gigli bianchi. E sopra di noi, la “Montagna”. Ma quello che è strano è che non c’è anima viva. Nessuno in terra, nessuno per mare, ed è sabato, un sabato di fine maggio che sembra estate piena. Stromboli non è uno dei posti in cui mi ritirerei a vivere, troppo calda, acque troppo profonde e troppo blu per me, ma nel giro della nostra passeggiata arrivo quasi a cambiare idea. Le case sul mare verso Piscita, belle essenziali, solari, i viottoli silenziosi, le piante di fico che promettono frutti succosi entro un paio di mesi. Ecco, fossi abbastanza ricca da poter scegliere un posto per ritirarmi a scrivere un libro, sceglierei Stromboli, con tutti i suoi squali che nella mia mente ormai sono diventati un esercito feroce che circonda l’isola e che mi terrebbero prigioniera di una stanza con vista sull’immenso mare senza null’altro da fare che scrivere.
Dopo una giornata di calma piatta, cielo limpido e sgombro, quando decidiamo di muoverci in barca al tramonto per vedere di notte la sciara di fuoco, ecco che arrivano i venti forti e il cielo si riempie di nuvole che coprono le cime del vulcano. Ok, la natura governa e spesso è un po’ dispettosa: ci accontentiamo della sciara infuocata dal sole al tramonto che è uno spettacolo davvero affascinante, passiamo ad omaggiare Strombolicchio e torniamo in rada al nostro gavitello a gustarci la nostra nuova variante di pasta e fagioli, ovvero minestra di cannellini con cipolla di tropea e sedano di verona, una simbiosi perfetta che unisce nord e sud in un simbolico omaggio al 150° dell’Unità d’Italia… e alla faccia di Bossi! Il cinema on boat stasera proietta “Caro Diario” di Nanni Moretti, sia per sentire un po’ di nostalgia di Roma, sia per il capitolo sulle Eolie in omaggio alla terra (o meglio al mare) che ci ospita. Prima di dormire il mio ultimo pensiero va al nemico:  Buonanotte, squaletto, non me ne volere ma spero vivamente tu sia orfano.


venerdì 27 maggio 2011

Viva l'Italia. Dei piccoli paesi.

Guardandola in modo lungimirante, abbiamo un problema. 
Scorrendo l’Italia verso Sud, ho individuato 3 posti dove, quando saremo stanchi di veleggiare, mi piacerebbe andare a vivere. Il punto è che sono posti dove, da individui vivi, onesti e fortemente laici quali siamo, non potremo essere accettati. Nell’ordine rigoroso di apparizione e non di preferenza, questi posti sono: Il cimitero di Ponza, le carceri di S. Stefano, il convento di Tropea. Per risolvere il problema, la mia fantasia ripiega su La Corricella a Procida, sicuramente vivo, sicuramente laico, onesto per quanto il mare lo permetta. Ho proposto questa soluzione a Giovanni che l’ha approvata, ponendo come unica condizione l’acquisto, per quel giorno lontano in cui smetteremo di andare a vela, di un gozzetto locale da pesca. Si può fare. Ma torniamo ad ora che il futuro è sempre lontano.
Siamo ancorati in rada a Capo Vaticano, uno dei tratti di costa rinomati tra i più belli del mondo, tale fama è meritata. Nonostante i 3 giorni di pioggia consecutivi che hanno flagellato questa parte d’Italia, l’acqua è turchese e abbastanza limpida. La roccia frastagliata lascia spazio a piccole insenature di spiaggia bianca di sassolini piccoli. Siamo a 30 miglia da Stromboli dove contiamo di andare domani, facendo una piccola digressione dalla nostra rotta. Man mano che scendiamo verso Sud abbiamo sempre meno fretta di lasciare l’Italia, allontanandoti dalla città e avvicinandoti ai piccoli borghi, soprattutto di mare, riesci ad apprezzare la semplicità dei tuoi compaesani. La dottoressa dell’Ospedale di Maratea, il ferramenta che vive casa e bottega e ti apre anche in orario di chiusura, il ristoratore di Cetraro che ti raggiunge sul molo in bicicletta per darti il biglietto da visita del Gambero Rosso e ti dice “qualunque cosa, sono a disposizione”. Certo, tutta questa cortesia è anche figlia del fuori stagione, molte cose belle sono figlie del fuori stagione, però capisci che riacquistare tempo e serenità è facile se si scelgono posti a minor densità di popolazione e di traffico. Ci avete mai fatto caso? In un supermercato di paese, la cassiera aspetta che abbiate riempito tutti i sacchetti e li abbiate riposti nel carrello, prima di dirvi il totale da pagare. Con calma, non c’è fretta, magari nel frattempo ti dice anche due parole gentili o ti consiglia una ricetta. Una cosa da poco, ma a Roma sembra che quasi ci godano a vederti interrompere il tuo stivaggio per tirar fuori il portafoglio, ogni volta acceleri e intanto pensi, dai aspetta, aspetta, ancora solo 8 confezioni e ho finito e invece niente, lei sembra lì appositamente per fregarti sul tempo “sono 68 euro e 73 centesimi” dice sadicamente, ti vendichi dandole la carta di credito, ma è una vendetta dal sapore amaro.  E dopo aver pagato… come una mannaia il divisore si abbatte sui tuoi acquisti riducendo lo spazio alla metà. Quasi un volerti dire “E muoviti, che il tempo è denaro”. Anche questo è stress.
Oggi abbiamo fatto il primo bagno della stagione, il primo bagno di questo viaggio, e per me il primo bagno da disoccupata. Un gran bel primo bagno. L’acqua ha una temperatura di 22 gradi, freddina, ma dopo poco ti ci abitui. Abbiamo anche messo in acqua il tender e siamo andati a riva, armato il tendalino e aperto la finestra davanti dello sprayhood. Insomma, è arrivata l’estate. Speriamo duri a lungo. Ora, poco dopo il tramonto e dopo una nuova ricetta di mezze maniche al sedano di Verona con tonno, buccia di limone e erba limoncina,  tutto intorno è calma piatta, il mare liscio come seta, Nel silenzio quasi assordante. passa lento un veliero fantasma. 30 miglia più a ovest, avvolto nella foschia, Stromboli veglia su di noi.
 

martedì 24 maggio 2011

Maratea o Rio de Janeiro?

Di una cosa sono certa: siamo arrivati ieri al porto di Maratea, gioiellino ben curato della Basilicata. Ma stamattina, forse, ci siamo svegliati a Rio de Janeiro. In cima alla montagna infatti, c’è un Cristo Redentore che abbraccia il mondo. Un po’ inquietante, visto che, per come siamo ormeggiati, il Cristo incombe su di me mentre faccio la doccia nel nostro fantastico bagno di prua. Non c’è più dubbio, il mondo si sta capovolgendo: la sinistra trionfa al nord mentre al sud piove, piove come di solito usa fare nelle pianure lombarde. Pazienza, ci fermeremo a Maratea anche stanotte, dove un posto in porto costa 35 euro, oggi però a Maratea soprana ci andiamo in autobus che ieri i 6 km di cammino in salita si sono fatti sentire.

Nei giorni scorsi, siamo passati veloci da Procida con sosta in porto e miracoloso acquisto di una ventola del motore prontamente sostituita da Giovanni, poi Capri, Nerano, Castellabate dove hanno girato Benvenuti al sud, solo che lì c’era il sole e per noi invece sembrava Gallarate sul mare. È una discesa lenta, ma poetica, viaggiante. Il mare ti circonda quasi sempre e il suono più familiare è già diventato (soprattutto da quando la vecchia ventola del motore ha guadagnato il cassonetto di Procida) il rumore del mare che scorre sullo scafo. Ancorati a Sud di Marina di Castellabate, abbiamo sperimentato il cinema pomeridiano con la proiezione di Duplicity, nulla di che. Però, la location era perfetta, abbiamo allestito per il cinema la cabina di poppa a sinistra, nulla da invidiare alle migliori sale. Siamo partiti da una settimana e gli unici contatti con il mondo di prima sono le telefonate con papà che lamenta una nostra lentezza nel viaggio, quasi pensasse che prima ci allontaniamo prima torniamo. No, no, torneremo con la stagione delle piogge… non questa, la prossima. E poi Facebook, utilissima sintesi di ciò che accade in patria e, ogni tanto, ovvero oggi per la prima volta, una copia di Repubblica, che tanto passano i giorni ma non cambia niente, sempre del delitto di Avetrana si parla. Dai messaggi che ricevo dagli amici, una parola trionfa su tutte: “invidia”. Adesso, anche se penso che a fine anno sarò io a invidiare l’Italia che lavora per ragioni meramente pratiche, capisco che questa nostra scelta sia nei sogni comuni di tutti, credo anche che, se fossimo un Paese civile, il downshifting dovrebbe essere obbligatorio per legge e finanziato dalle società imprenditoriali. Già da anni, nutro forti sospetti sui “work-aholic people”, soprattutto perché la maggior parte degli adepti ha una sorta di orgoglioso atteggiamento nel dichiararsi parte della categoria. “Nel mio futuro vedo lavoro, lavoro e solo lavoro”, “lavoro 16 ore al giorno, 7 giorni alla settimana”, o addirittura “non ho smesso di lavorare neanche col pancione, ho staccato solo per andare a partorire e dopo due giorni ero di nuovo in ufficio”, ecco dichiarazioni sentimental-maniacali di cui uomini, ma soprattutto tante donne di oggi, vanno fieri di poter declamare. Sono arrivata alla convinzione che considerare il lavoro il fine ultimo della propria vita, sia accettabile, forse anche encomiabile, fino a 30 anni, dopo diventa banalmente solo un non voler accettare di invecchiare e di non essere indispensabile. Certo, facile pensarla così, non avendo dei figli da introdurre nel mondo e accompagnare fino all’indipendenza economica, può darsi. Il punto è che, sempre secondo me, chi lavora troppo, spesso lavora male e crea malessere del lavoro per gli altri. Quante persone conosciamo, che talmente immerse nel proprio lavoro, non vivono, non guardano, non ascoltano, non pensano. Il grave è che invitando i più giovani a lavorare nello stesso modo, li spingono a non guardare, non ascoltare, non pensare. La maggior parte delle persone che ho conosciuto nel mondo della pubblicità si vanta di non guardare la televisione, il ché è assolutamente paradossale ed è dimostrato quotidianamente dal miglior pubblicitario che opera sul mercato italiano da oltre un ventennio: Silvio Berlusconi, come politico è un disastro ma come pubblicitario vorrei tanto averlo avuto come maestro anche perché probabilmente mi sarei accorta prima dei pericoli sociali di quel mestiere.

Ma, bando alle divagazioni, anche perché qui, tanto per non dare un’idea sbagliata, si lavora eccome. Il tema di oggi è di natura idraulica: come disincrostare lo scarico del bagno di poppa, più che altro, serve trovare lo strumento giusto e per questo dovremo raggiungere la stazione di Maratea, quindi serve un autobus che ti ci porti e fuori stagione l’autobus qui passa quando e se lo riitiene opportuno. Poi c’è da scegliere cosa preparare per pranzo, oggi sarei per un riso basmati condito con foglie di una strana mistura tailandese acquistata da Castroni, ma è un azzardo, Giovanni auspica formaggi e affettati, meno esotico ma più sicuro. Nulla vieta di percorrere entrambe le strade. Non sappiamo come torneremo da questa avventura, se più saggi o più inconsapevoli, se più liberi o più annoiati, se più sani o più alienati di prima, dopo pochi giorni però sento di poter dire con certezza che non torneremo più magri di quando siamo partiti.

venerdì 20 maggio 2011

L'Opera Romana Pellegrinaggi a Chiaia di Luna

Mi ci ha fatto pensare Alessandra, devono essere un gruppo dell’Opera Romana Pellegrinaggi questi gabbiani a Chiaia di Luna (Ponza). Per fortuna la notte dormono ma appena sorge il sole, eccoli lì in cammino sulle acque con le loro litanie infinite che ricordano tanto quelle lamentazioni sterili e continue di frustrate figure del mondo del lavoro. Stop, la connessione con la quotidianità finisce qui. Per il resto è un bellissimo venerdì di Maggio a Chiaia di Luna deserta, fa caldo, tra un po’ forse pure troppo, c’è un po’ di umidità residua, il mare è uno specchio calmissimo, la roccia liscia e a tratti illuminata dal sole basso della mattina. Siamo qui da ieri pomeriggio, con noi ha passato la notte in rada una barca nordica tipo Hallberg Rassy piccola (piccola rispetto a P'acá y p'allá, rispetto a Nodo alla Gola avrei detto grande, tutto è relativo, si sa), che stamattina alle 8 in punto ha levato l’ancora e si è diretta verso nord, chissà magari sta tornando a casa.
Il primo approccio con le pontine è stato a Palmarola, anch’essa deserta, per trovare qualche anima abbiamo dovuto raggiungere Cala del Porto dove c’èra un gruppetto di ragazzi in gita scolastica…A questo proposito, come mai noi andavamo ad Assisi, Gubbio, a Firenze, al massimo dai Frati Trappisti, e questi oggi la gita scolastica la fanno a Palmarola? O a Ischia o all’Elba, come i miei nipotini? L’educazione sta diventando marittima, il ché non può che essere un ottimo segno per il futuro dell’umanità, dubito però sia frutto del pensiero Gelminiano…
La barca naviga che è una bellezza, viaggiamo a una media di 7 nodi, quando il vento è favorevole e allegro, arriviamo facilmente oltre i 9 nodi. La ventola del motore fa da ieri un rumore gracchiante, Giovanni l’ha smontata e ha visto che è un accrocco un po’ strano, dovremo cambiarla appena possibile. Controlliamo costantemente il motore che perde un po’ d’olio dalla guarnizione della coppa ma come dice Marco “o grullo o che vuoi sbancare il motore? Se perde un po’ d’olio poi ce lo riaggiungi e tutto torna come prima, l’importante è che non faccia il pisciolino”. In effetti, il pisciolino non lo fa, sono poche gocce e il livello non è ancora sceso neanche di un millimetro.
Ieri abbiamo provato la nuova amaca a prua fissandola tra l’albero e lo strallo di poppa e il risultato era un po’ troppo bello, un po’ troppo relax per non sentirsi in colpa. L’abbiamo riposta subito, ci vuole tempo per accettare di concedersi tanti privilegi….

mercoledì 18 maggio 2011

Pronti, via!

Partiti. Il viaggio è iniziato ieri con una tappa brevissima, meglio definirla una pre-tappa: da Porto Santo Stefano a Ansedonia, tanto per risparmiarci due ore di navigazione nella lunga verso Anzio. Vogliamo fare tutto con calma, abbiamo bisogno di conoscere P'acá y p'allá, ancora un’estranea rispetto a noi due e capire le sue potenzialità e i suoi punti critici. Ora mentre scorriamo veloci lungo la costa laziale con un bel venticello di ponente da 12 nodi, penso a come è nato questo progetto. Tutto gira intorno ad una frase: Adesso Basta. Su questo titolo geniale, Simone Perotti ha scritto un libro di successo. E ci credo, l’intuizione di scrivere una semplice frase che oggi chiunque tra i 14 e gli 80 anni è in grado di condividere in quasi ogni momento della sua giornata è di per sé, al di là del valore del libro, un segno di meritato successo. L’Adesso Basta credo che lo ripetiamo tutti dentro di noi ogni giorno, qualcuno lo esplicita più spesso, qualcuno lo tiene rigorosamente chiuso dentro di sé, qualcuno lo dice tanto per dire, come intercalare, per qualcuno è più rabbioso e serve a sfogare la frustrazione di chi sa che non basta ancora, che bisogna andare avanti. Ma c’è un Adesso Basta che vale più degli altri, che è quello vero e consapevole, che è sufficiente dire anche una volta soltanto.
La scelta di mollare tutto e scendere dal tapis roulant che ci siamo costruiti addosso la si deve a se stessi in primo luogo, ma in parte minore avviene praticamente anche grazie a qualcun altro. Grazie a parenti comprensivi, grazie a amici incoraggianti, grazie a figli cresciuti. Nel mio caso, e per Giovanni di conseguenza visto che lui era da anni pronto a partire, il supplemento di aiuto al mio Adesso Basta riesco a ricondurlo solo alla meschinità di ciò che ho vissuto negli ultimi mesi dello scorso anno. E nonostante un’indomabile disprezzo non posso che tributare un grazie anche a quelle persone con cui diciamolo, se avessi avuto un po’ di buon senso, non avrei dovuto nemmeno sedermi a bere un caffè.
Una situazione banale, un datore di lavoro che non vuole rispettare il contratto, un solo modo per evitare di farlo e convincerti a rinunciare di tua spontanea volontà: il mobbing. I passi del mobbing sono gli stessi per tutti: esautoramento da ogni funzione, dapprima casuale, poi sempre più esplicito, allontanamento dagli altri, isolamento in una stanza di solito semibuia e semivuota ad aspettare che tu crolli. Lì in quelle stanze anguste e tristi dove di solito c’è una luce che non funziona o un riscaldamento guasto, tu, essere indesiderato, hai tre possibilità:
-       cadere vittima dell’ansia di uscirne e degli head hunter che si mettono le mani nei capelli e ti pronosticano tempi bui, diagnosticando una impossibilità, pressoché assoluta e indipendente dalle tue qualità, di rimetterti in piedi. “il mercato non perdona errori, né incidenti di percorso in questi tempi di crisi…”. Un suggerimento solo uscirà dalle loro labbra: légati alla sedia e non mollare per nulla al mondo.
-       Seguire pedissequamente i consigli del tuo avvocato che godrà di ogni torto ti verrà fatto perché lo vedrà come un punto a tuo favore nella causa che non vede l’ora di iniziare. Ti raccomanderà di tener duro, di mettere sempre tutto per iscritto, di non mancare mai da un posto di lavoro dove non hai più possibilità di svolgere un lavoro e ad ogni segnalazione di scorrettezza da te subita esordirà con un “Benissimo!!!” per le ragioni di cui sopra.
-       Prendere in mano le redini del gioco e sfruttare il nuovo tempo a disposizione per costruire il tuo sogno. Che di solito è un sogno di “Adesso Basta”.
Non è stato facile. Nel momento in cui abbiamo capito che Nodo alla Gola con i suoi 31.7 piedi di lunghezza non era in grado di tollerare tutta l’attrezzatura che avremmo voluto per una barca su cui vivere a lungo, è iniziata la ricerca della nuova barca. Il modello lo abbiamo individuato quasi subito, il Grand Soleil 45 disegnato da Jude&Vrolick faceva al caso nostro: 3 cabine, bel quadrato, cucina a U, cabina di prua armatoriale che a casa così bene non ci si sta. Una barca veloce e sportiva, ma anche comoda, soprattutto se ci devi vivere in due. Di usate in vendita ce ne erano una decina e le abbiamo viste quasi tutte, percorrendo in tutto ben 10.000 chilometri in auto. Possiamo dire che i rischi che abbiamo corso per cercare la barca da acquistare sono statisticamente ben superiori a quelli che corriamo oggi nei mari.
Individuata la barca, inizia la lunga procedura di accettazione da parte del leasing, difficile farsi accettare se non hai una busta paga… Che tu abbia in quel momento i soldi in contanti non gliene importa nulla, non sei affidabile se hai i soldi, lo sei solo se qualcuno dice che ne avrai abbastanza mese per mese per pagare le tue rate. Diventi affidabile con una fideiussione bancaria che la tua banca però per concederti (sui soldi tuoi che intanto accantona, sia chiaro) ha bisogno della garanzia dalla Centrale Rischi della Banca d’Italia. Mi chiedo perché la Banca d’Italia non abbia mai garantito me che da 20 anni e passa affido i miei soldi ad una Banca… 10.000 chilometri, centinaia di firme dopo, finalmente un giorno a Milano (luogo ameno per parlare di barche) entriamo in possesso delle chiavi e da lì, 1 mese e mezzo di preparativi senza soste (e di spese, ca va sans dire…). Oggi P'acá y p'allá ha in più un serbatoio delle acque nere, indispensabile in Turchia, un dissalatore, fonte di serenità nelle isole greche, 5 belle batterie nuove di zecca e tante altre piccole cose che aiutano a vivere meglio.
Sono le 15 mentre scrivo, pubblicherò quando la connessione lo permette, stiamo navigando al largo di Fiumicino e il viaggio è appena iniziato.

mercoledì 4 maggio 2011

Si può cambiare nome a una barca?

Me lo aveste chiesto 2 mesi fa, vi avrei risposto, da buona napoletana scaramantica, "assolutamente no!"
È arcinoto che non vi è niente di più iettatorio del cambiar nome ad una imbarcazione, milioni di leggende e aneddoti in tal senso fanno prefigurare sciagure e naufragi agli ingenui o agli arroganti che percorrono questa strada. 
Non avrei cambiato nome alla nostra nuova barca se avessimo comprato "Almalibre" o "Alisea" o "Altaluna", forse nemmeno il pretenzioso "White Rose" avrei cambiato. Ma tutte queste barche, tutti Grand Soleil 45, erano di proprietari che non volevano realmente vendere le loro barche o, nel caso di Almalibre, che voleva talmente venderla che ci è sfuggita poche ore dopo averla vista.
Ma per tutte le regole ci sono le eccezioni, per tutte le certezze ci sono i dubbi leciti. Se qualcuno di voi pensa che potessi andare in giro per i mari con una barca che portava sul sedere la dicitura "Lady Titti" è segno che non mi conosce abbastanza. Lady Titti, no, non si può. A parità di valore, abbiamo offerto 20.000 euro in meno al proprietario rispetto ad un'altra barca, proprio per il nome che si portava addosso e che, indovinate un po', era frutto di omonimia con la moglie del proprietario dell'imbarcazione, una signora stizzosa dell'infausto hinterland milanese che tanto impunemente quanto immeritatamente pretendeva di fregiarsi del titolo di Lady.
Il complesso processo di acquisizione della barca dei nostri sogni ha visto così il suo esito favorevole quasi contemporaneamente all'asportazione gioiosa del mortificante originario nome e la sua sostituzione con il ben più dignitoso e eroico P'acá y p'allá. Che sarebbe? Il titolo di una poesia di Pablo Neruda tratta dalla raccolta Stravagario. È gergale, credo,  e il suo significato è quello che gli inglesi definiscono con here, there and everywhere. Allo stesso tempo ha un suono vagamente napoletano e la cosa non guasta. In più, come per Nodo alla Gola, siamo quasi certi di non incontrare altre barche con lo stesso nome in giro per mare.
Visto lo strappo alla regola, abbiamo però ossequiosamente osservato l'antidoto prescritto: fissare in barca una targhetta d'ottone con il primo nome e tenerla lì fino all'attraversamento dell'Equatore, quando si è autorizzati a darle giusta sepoltura in mare. Lady Titti è quindi stato fissato con due piccole viti sotto l'ultimo degli scalini della scaletta interna, invisibile a meno di sdraiarsi per terra proprio sotto tale scaletta. Non si vede, ma c'è.

martedì 3 maggio 2011

Ho messo in stand by la vita per un sogno

Per una volta, una soltanto forse, dobbiamo concederci un sogno.
O meglio, il sogno dovremmo concedercelo ogni giorno della nostra vita, sognare è già, di per sé, vivere una vita migliore, ritagliarsi spazio per pensare possibile l'apparentemente impossibile. Ma una volta, anche una soltanto, dobbiamo regalarci il lusso di realizzarlo. Non so se il nostro voler passare dei mesi per mare sia un sogno comune che prima o poi dovevamo realizzare o se più sinceramente, sia una semplice fuga, una fuga come tante da una vita che non ti somiglia più e che vuole costringerti a seguire un percorso coerente. Non lo so, so solo che questa immagine davanti agli occhi vale più di qualsiasi riflessione e risposta. Il mare, davanti a te, accanto a te e dietro di te è la miglior compagnia che tu possa avere. Soprattutto quando è calmo.  
"In terra puoi barare, in mare no. Il mare punisce gli spacconi" diceva Eric Tabarly che di mare ne sapeva abbastanza. In mare non puoi far altro che essere te stesso.
Il viaggio di P'acá y p'allá comincia così, comincia ora anche se per le nostre anime è iniziato milioni di anni fa.