“Però Spinaceto, pensavo peggio” dice Nanni Moretti in Caro Diario. “Però le Strofadi, pensavo meglio” dico io appena arriviamo dopo 25 miglia di navigazione e dopo aver sfiorato la profondità di 4.000 metri. La discussione con Giovanni verte su questo tema: un posto è necessariamente bello solo perché è remoto, selvaggio, lontano da tutto, in mezzo al mare? Secondo lui sì, secondo me no.
Però possiamo dire che le condizioni specifiche influenzano notevolmente l’aspetto di un posto. Quando arriviamo ad Arpìa, la più a nord delle due Strofadi, la zona è reduce dalla burrasca di nord ovest che ci ha tenuti fermi due giorni a Zante, l’onda lunga si sente anche nel braccio di mare di mezzo miglio tra le due isole, l’acqua è un po’ torbida. Il mattino dopo, andata via l’onda, l’acqua più limpida, il grande monastero di Stamfani (la seconda isola) illuminato dalla luce bassa, le Strofadi riesco ad apprezzarle di più.
Quel che mi appare chiaro e cosa a cui non ero preparata è che lasciata Zante, abbiamo lasciato alle nostre spalle la tipica geologia delle isole ionie, quei colori non li rivedremo fino al ritorno, troveremo dei turchesi, degli smeraldi nell’acqua ma quell’azzurro è tipico delle Ionie e nient’altro. Come sempre a sapere di perdere qualcosa provo una sensazione sgradevole, ma basta pensare ai colori a venire che capisco che ne vale la pena. L’arrivo alle Strofadi è segnato per Giovanni dall’emozione della pesca a fin di bene. Ovvero, inaugura la tecnica del take and release, che sarebbe prendi il pesce e poi lo liberi in mare. Molto sportivo, nel caso di Giovanni per nulla voluto e spontaneo. Diciamo che non ci dedichiamo particolarmente alla traina, mentre andiamo alla velocità migliore che possiamo, Giovanni lascia in acqua il filo con attaccato un polipetto di gomma rosso che dio solo sa come fa ad ingannare un pesce… Più o meno, quel polipetto è come un cagnolino al guinzaglio, da più di un mese gli facciamo fare un bagno ogni tanto e prima di arrivare lo ritiriamo su. Mai che qualcuno lo abbia importunato. Quand’ecco invece che all’improvviso, a 10 miglia dalle Strofadi e su un fondo di oltre 2000 metri, parte il mulinello della canna. Ci guardiamo stupiti e totalmente impreparati alla pesca d’altura, niente cintura per imbragare la canna, niente guanti, niente raffio per acchiappare il pesce. Giovanni inizia una lunga battaglia con quello che all’inizio gli sembra un ostacolo inanimato, forse un grande sacchetto di plastica, o una rete o chissà. Fa solo resistenza, non si dibatte all’inizio, ma poi eccolo comparire: un bel tonno di almeno 5 chili, Giovanni pensa già a come sfilettarlo, io, che detesto tutti i tonni che non siano in scatoletta e che non ci lascino il sacrosanto dubbio che si tratti di squali, penso solo alla puzza che farà. Una volta in superficie, la lotta diventa impari, a favore del tonno che, di fronte al nostro secchiello decisamente inadatto a ospitarlo e alle mani nude di Giovanni, si fa una gran risata, si libera dell’amo e riconquista la meritata libertà. Mentre Giovanni non sa se essere deluso o soddisfatto dall’esperienza, visto che è pur vero che stasera non si mangia pesce ma il polipo rosso acquistato a Leuca sta dando prova di utilità e il mare segni di vita, io immagino il ritorno a casa del tonno, con la signora tonna che battendo la pinnetta sull’orologio gli chiede ragione del suo ritardo e lui che replica “zitta, non mi dire niente che oggi son vivo per miracolo eh?”.
Ancorati alle Strofadi, ci raggiunge nel pomeriggio un piccolo peschereccio, il Xristina X, mi chiedo se la X stia per segnalare la decima barca del pescatore o è una sorta di citazione di Malcom X, domande inutili, alle Strofadi non hai molto altro da fare. Quel che noto è che i pescatori qui, sono più rilassati rispetto ai nostri. In Italia li vedi sempre in movimento, butta le reti, torna in porto, ritira le reti, torna in porto. Qui invece dopo aver buttato le reti vanno a ancorarsi in una baia e lì passano parecchio tempo. Nel nostro caso, il Xristina X è rimasto tutta la notte.
Al monastero di Stamfani vive un monaco. Dicono non sia molto socievole, d’altra parte chiedere ad un eremita di essere compagnone è un po’ come chiedere a un imbonitore di essere sincero. Scendiamo a terra e andiamo a curiosare. Il monaco si è ben organizzato, ha anche costruito una piccola diga per riparare le sue barchette da pesca. Il monastero è chiuso con un paletto ma lì vicino si sentono rumori dai campi, probabilmente il nostro amico sta zappando la terra. Si potrebbe continuare ad esplorare ma l’abbaiare di un cane, evidentemente ancor meno socievole del monaco, fa scappare Giovanni a gambe levate. Lasciamo questa nowhere land impervia e selvaggia senza grandi rimpianti, però bisogna dire che un cielo così stellato erano anni che non lo vedevamo. Abbiamo ritrovato il buio totale, qualcosa a cui nell’era dell’inquinamento luminoso non si è più abituati.
ciioooooooooooooooooooooooooo
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