giovedì 30 giugno 2011

Methoni e Sapientza. Non sarebbe un bel nome per un'agenzia di pubblicità?

Pensandoci bene, la differenza tra continente e isole si sente. Quando sei su un’isola hai un’impressione di precarietà, di temporaneità del tutto, sei come fermo a una boa in attesa di ripartire o in attesa che l’isola e il mare ti caccino via. Anche chi ci vive su un’isola è diverso, guarda verso il mare, perché è da lì che arrivano le novità, perché è oltre lì che si sogna di andare. Chi sta sul continente invece, guarda a terra, in un borgo di mare, guarda sopra la collina,  quando guarda il mare è per capire che tempo farà, o per immaginare continenti lontani. Per noi che navighiamo la differenza tra isola e continente è che in un’isola lasci un punto pensando sempre che magari più tardi ci torni, perché ti sposti intorno a lei con il vento e chissà magari fai il periplo. Scorrendo il continente invece, sai che la terra lascia il posto ad altra terra da vedere, hai la sensazione di andare in discesa e tendi a guardare indietro ogni tanto per salutare la costa che ti è passata a fianco. 
Se dovessi scegliere, preferirei essere un’isola, ma è interessante trovare motivi per rivalutare la terraferma. È molto bello il Peloponneso, lo avevamo già visto da terra, ma da mare è, come sempre, un’altra cosa. Selvaggio, selvatico, aspro ma anche ricco di borghi sul mare così facili e accoglienti per chi ci naviga intorno. 
Methoni, sul primo dito del Peloponneso, è un luogo magico. Un piccolo agglomerato intorno a una spiaggia composto per lo più di trattorie che gravitano intorno alla maestosa fortezza veneziana eretta tra il 13° e il 15° secolo e arricchita successivamente di una torre ottagonale turca perfettamente integrata. Quattro passi più su, il paese, poche case e qualche negozio lungo un’unica strada. La fortezza al tramonto di una giornata come quella di oggi è un’esperienza mistica. 
Sono passate le 8 e il sole è basso sull’orizzonte, tra le mura della fortezza, l’obelisco, una piccola chiesetta e sterminati campi di erbe dai fiori azzurri e viola. Dalla torre di Methoni, guardi l’isola di Sapientza, dove siamo stati in giornata, ancorati nella rada di nord-est. Acqua color smeraldo, terra rossa, scogli grigi, raffiche di vento che scendevano dalla montagna e increspavano la superficie del mare. Nessuno per mare. Neanche una barca da pesca, né a vela, nessuno. Eppure è a un miglio da terra, a portata di mano. Saranno tutti a Skhiza, l’altra isola che vediamo di fronte? 
Macché, sembrano isole dimenticate oltre che disabitate. Sappiamo che sono territorio di caccia (Sapientza) e di esercitazioni militari (Shkiza), infatti per tutto il giorno sentiamo, senza vederli il rombo di bombardieri ad elica, sembra la colonna sonora di un film sulla seconda guerra mondiale. Ogni volta che passano, ti aspetti di sentire il fischio delle sirene e il sibilo delle munizioni perché è così che noi della nostra generazione abbiamo conosciuto questa atmosfera, attraverso la letteratura filmica. Ti guardi intorno e ti immagini il contesto in bianco e nero. Poi ti ricordi chi sei, dove sei e ti butti nell’acqua smeraldo. E capisci di essere molto ma molto fortunato.

martedì 28 giugno 2011

Pylos. Un passaggio sulla Grecia continentale


Inizia a Pylos il nostro breve percorso sulla Grecia Continentale. Siamo nel Peloponneso, dove il turismo è locale, la costa bella ma non tropicale, l’acqua ha i colori dello smeraldo e la terra del rosso e dell’ocra. E soprattutto le persone sono gentili.
La gentilezza dei Greci ci colpisce. Sui giornali si legge della grave crisi economica, lo spauracchio dell’uscita dall’UE, gli scioperi che flagellano il Paese. La gente è arrabbiata forse, ma è gentile, non si tratta solo di indole turistica, è più uno stato d’animo, un modo di fare, una curiosità che mostra nei confronti dell’altro. 
Tolto pochi esemplari, abbiamo finora incontrato solo persone corrette e disponibili. Penso alla signora del Cosmote shop di Corfù, nevrotica ma materna, a Tzanetos, ristoratore di Zacinto che ti riempie di cibo per 10 euro a testa e poi ti regala una bottiglia di vino, all’ometto del carburante di Pylos che ci ha dato un passaggio in centro sul suo furgoncino. Nulla di speciale, solo che sembra che siano semplicemente aperti al prossimo, interessati alle storie e non solo a quanto possano guadagnarci, felici e disponibili ad aiutarti, non solo perché non sono arrabbiati con l’altro ma soprattutto perché sono curiosi dell’altro da sé. Insomma, bella gente.
Il porto vecchio di Pylos è l’unico porto al mondo dove c’è più mare all’interno che all’esterno, lo evitiamo.

Ci ormeggiamo invece all’inglese nel nuovo marina turistico, dove nuovo e turistico sono due termini che qui hanno un’accezione tutta particolare: nuovo nel senso che le utenze in banchina sono dei cavi con fili scoperti che escono dal molo, ovviamente e per fortuna non funzionanti;  quando chiamo per radio,  un signore gentile mi dice di ormeggiarci tranquillamente dove troviamo posto, se c’è posto. Infatti non si vede nessuno, non c’è alcun ufficio a terra… Ah ecco, turistico nel senso che il signore gentile è probabilmente un operatore di call center alle Hawaii. Meglio così, non avremo neanche un conto da pagare, la Grecia è una gioia da questo punto di vista. Ormeggiato dietro di noi, c’è un 18 metri neozelandese con una coppia a bordo. Mi fermo a chiacchierare con la signora e il nostro viaggio di 6 mesi mi appare come una breve vacanza. Loro sono partiti nel 2007 e progettano di tornare a casa tra 3 anni. Ovvero 7 anni per mare, il giro del mondo e anche con discreta calma. E noi qui a contare i giorni e le miglia da fare….
Vabbè non ci voglio pensare, meglio dimenticare i neozelandesi e usare come riferimento gli amici italiani che lottano per strappare una 3 settimane di ferie, come tante volte ho fatto io in passato!
A Pylos, cittadina semplice di non particolare bellezza, ricomincia la nostra ricerca di una ventola del motore. Ebbene sì, sembra che questo oggetto sulla nostra barca non ci voglia stare. In effetti ora che è rotta, acusticamente si sta meglio, c’è meno rumore quando il motore è acceso ma sappiamo che, anche se non è indispensabile, trattandosi dello strumento che permette di far uscire dal compartimento motore l’aria calda, è più sano che sia funzionante.  Costa 20 euro ma non è facile da trovare, alla fine soprassediamo, ci penseremo a Kalamata.
Stavo quasi per dimenticarmi!!! Nuova emozione di pesca oggi. E nuova buona azione ecologica e sensibile al problema dell’estinzione della specie tonno pinna gialla. Again Take and Release, questa volta con un esemplare di oltre 10 chili, stessa dinamica, stesso tuffo del miracolato pesce dalla plancetta di poppa. Stesso mix di soddisfazione e frustrazione di Giovanni. Il polipetto di plastica rossa che usiamo come esca, però, si è messo in sciopero, ha detto che la sua è competenza sprecata con noi e che manderà il suo curriculum vitae in giro per vedere se trova un altro posto.

lunedì 27 giugno 2011

Le Strofadi. Diciamocelo, due scogli in mezzo al mare.


“Però Spinaceto, pensavo peggio” dice Nanni Moretti in Caro Diario. “Però le Strofadi, pensavo meglio” dico io appena arriviamo dopo 25 miglia di navigazione e dopo aver sfiorato la profondità di 4.000 metri. La discussione con Giovanni verte su questo tema: un posto è necessariamente bello solo perché è remoto, selvaggio, lontano da tutto, in mezzo al mare? Secondo lui sì, secondo me no. 

Però possiamo dire che le condizioni specifiche influenzano notevolmente l’aspetto di un posto. Quando arriviamo ad Arpìa, la più a nord delle due Strofadi, la zona è reduce dalla burrasca di nord ovest che ci ha tenuti fermi due giorni a Zante, l’onda lunga si sente anche nel braccio di mare di mezzo miglio tra le due isole, l’acqua è un po’ torbida. Il mattino dopo, andata via l’onda, l’acqua più limpida, il grande monastero di Stamfani (la seconda isola) illuminato dalla luce bassa, le Strofadi riesco ad apprezzarle di più. 
Quel che mi appare chiaro e cosa a cui non ero preparata è che lasciata Zante, abbiamo lasciato alle nostre spalle la tipica geologia delle isole ionie, quei colori non li rivedremo fino al ritorno, troveremo dei turchesi, degli smeraldi nell’acqua ma quell’azzurro è tipico delle Ionie e nient’altro. Come sempre a sapere di perdere qualcosa provo una sensazione sgradevole, ma basta pensare ai colori a venire che capisco che ne vale la pena. L’arrivo alle Strofadi è segnato per Giovanni dall’emozione della pesca a fin di bene. Ovvero, inaugura la tecnica del take and release, che sarebbe prendi il pesce e poi lo liberi in mare. Molto sportivo, nel caso di Giovanni per nulla voluto e spontaneo. Diciamo che non ci dedichiamo particolarmente alla traina, mentre andiamo alla velocità migliore che possiamo, Giovanni lascia in acqua il filo con attaccato un polipetto di gomma rosso che dio solo sa come fa ad ingannare un pesce… Più o meno, quel polipetto è come un cagnolino al guinzaglio, da più di un mese gli facciamo fare un bagno ogni tanto e prima di arrivare lo ritiriamo su. Mai che qualcuno lo abbia importunato. Quand’ecco invece che all’improvviso, a 10 miglia dalle Strofadi e su un fondo di oltre 2000 metri, parte il mulinello della canna. Ci guardiamo stupiti e totalmente impreparati alla pesca d’altura, niente cintura per imbragare la canna, niente guanti, niente raffio per acchiappare il pesce. Giovanni inizia una lunga battaglia con quello che all’inizio gli sembra un ostacolo inanimato, forse un grande sacchetto di plastica, o una rete o chissà. Fa solo resistenza, non si dibatte all’inizio, ma poi eccolo comparire: un bel tonno di almeno 5 chili, Giovanni pensa già a come sfilettarlo, io, che detesto tutti i tonni che non siano in scatoletta e che non ci lascino il sacrosanto dubbio che si tratti di squali, penso solo alla puzza che farà. Una volta in superficie, la lotta diventa impari, a favore del tonno che, di fronte al nostro secchiello decisamente inadatto a ospitarlo e alle mani nude di Giovanni, si fa una gran risata, si libera dell’amo e riconquista la meritata libertà. Mentre Giovanni non sa se essere deluso o soddisfatto dall’esperienza, visto che è pur vero che stasera non si mangia pesce ma il polipo rosso acquistato a Leuca sta dando prova di utilità e il mare segni di vita, io immagino il ritorno a casa del tonno, con la signora tonna che battendo  la pinnetta sull’orologio gli chiede ragione del suo ritardo e lui che replica “zitta, non mi dire niente che oggi son vivo per miracolo eh?”.
Ancorati alle Strofadi, ci raggiunge nel pomeriggio un piccolo peschereccio, il Xristina X, mi chiedo se la X stia per segnalare la decima barca del pescatore o è una sorta di citazione di Malcom X, domande inutili, alle Strofadi non hai molto altro da fare. Quel che noto è che i pescatori qui, sono più rilassati rispetto ai nostri. In Italia li vedi sempre in movimento, butta le reti, torna in porto, ritira le reti, torna in porto. Qui invece dopo aver buttato le reti vanno a ancorarsi in una baia e lì passano parecchio tempo. Nel nostro caso, il Xristina X è rimasto tutta la notte.   
Al monastero di Stamfani vive un monaco. Dicono non sia molto socievole, d’altra parte chiedere ad un eremita di essere compagnone è un po’ come chiedere a un imbonitore di essere sincero. Scendiamo a terra e andiamo a curiosare. Il monaco si è ben organizzato, ha anche costruito una piccola diga per riparare le sue barchette da pesca. Il monastero è chiuso con un paletto ma lì vicino si sentono rumori dai campi, probabilmente il nostro amico sta zappando la terra. Si potrebbe continuare ad esplorare ma l’abbaiare di un cane, evidentemente ancor meno socievole del monaco, fa scappare Giovanni a gambe levate. Lasciamo questa nowhere land impervia e selvaggia senza grandi rimpianti, però bisogna dire che un cielo così stellato erano anni che non lo vedevamo. Abbiamo ritrovato il buio totale, qualcosa a cui nell’era dell’inquinamento luminoso non si è più abituati.

sabato 25 giugno 2011

Zacinto. La spiaggia del relitto e lo sbarco dei dannati.


Dedichiamo a Cefalonia un solo bagno sulla costa sud e poi voliamo giù (letteralmente, con un bel ventone al traverso) verso Zacinto, l’isola più meridionale delle Ionie. Abbiamo seminato i charteristi, ne eravamo sicuri,  gravitano tra Corfù e Itaca, più in là non vanno, di solito la vacanza è troppo breve. 
Zacinto è disseminata di grotte a picco sul mare, sulla più famosa, la Blue Cave, a nord est dell’isola, hanno messo un grande cartello con freccia, visibile da oltre 1 miglio con scritto “Have a look inside!”. Dicono non abbia nulla da invidiare alla grotta azzurra di Capri, non possiamo testimoniarlo, non ci siamo entrati, visto che il mare è mosso ed è impossibile ancorarsi su quelle profondità. In più, entrare in una grotta con un cartello sopra che invita ad visitarla non rientra nelle nostre attività preferite. Scorriamo il lato ovest dell’isola, quello esposto al vento dominante, selvaggio e aspro. Bellissimo. Arriviamo prima delle 8 di mattina alla  spiaggia del relitto, praticamente l’immagine simbolo della Grecia, quella che si trova sulle copertine di tutti i depliant e  delle guide turistiche, in tempo in tempo per trovarla deserta e l’immagine è davvero suggestiva. Sembra che quel relitto sia stato portato lì appositamente, tanto ci sta bene su quella spiaggia. Le alte rocce intorno che tengono in ombra la spiaggia, l’acqua azzurra, il rosso ruggine del relitto fanno di questo posto in questo momento uno spettacolo spettrale. Il tempo di scendere a terra, fare un po’ di foto, girarci intorno ed ecco che comincia lo sbarco dei dannati. Liberi dai Charteristi, siamo nell’area dell’escursione giornaliera con pranzo a bordo. 
Decidiamo di goderci lo spettacolo per la prima ora,  con un certo cinismo e apprezzando l’idea di essere liberi di andarcene, ma anche con la voglia di studiare il fenomeno e di capirne un po’ di più. I primi ad arrivare sono evidentemente le escursioni un po’ più chic, piccoli motoscafi con al massimo 6/8 persone a bordo, probabilmente gruppetti portati lì da un servizio taxi dell’albergo. 
Mano mano che i minuti passano, arrivano le barche più grandi e i passeggeri diventano 30, 40, anche 100 per barcone. La barca suona la tromba e arriva fin sulla spiaggia, il freno è semplicemente la carena che tocca il fondo. Una scaletta più o meno rudimentale calata a prua ed ecco i dannati in fila pronti a sbarcare. E con loro, ciambelle, borse frigo, macchine fotografiche asciugamani etc. Gli viene dato più o meno mezz’ora o un’ora di tempo e poi, via, pronti a reimbarcarsi al colpo di tromba che si continua il giro dell’isola. 
Giovanni, impietoso, fotografa lo scempio umano, soffermandosi sulle prove di agilità dei dannati. Io mi concentro sul tentare di indovinare quale dei bagnanti sarà inesorabilmente investito dal prossimo barcone. Ma soprattutto mi chiedo perché tutti si dirigano verso il fazzoletto di spiaggia al sole, lasciando deserta quella in ombra, quando è chiaro che entro poco di ombra non ce ne sarà più e sarà rimpianta amaramente.  
 Nel giro di mezz’ora, il relitto è assaltato da orde di umani colorati, due ragazze per l’occasione sono arrivate in spiaggia vestite da pirati (spero sia un lavoro ben retribuito…), la spiaggia conta ormai più di mille persone.  Le barche ogni minuto che passa, crescono di dimensione e di densità di popolazione a bordo, quando vediamo arrivare un vero e proprio traghetto, capiamo che è arrivato il momento di abbandonare lo spettacolo. Inutile dire che due baie più in là, non c’è nessuno e si sta benissimo, ci sono le grotte, c’è l’acqua azzurra, manca solo il relitto. Speriamo non venga ai greci l’idea di metterne uno anche qui per incrementare il business.
Proseguiamo il giro con l’obiettivo di ancorarci per la notte nel grande golfo di Laganà, a sud dell’Isola. 
Ahimé, è parco naturale e noi nutriamo una profonda avversione verso le zone adibite a parco marino. Basta guardare come hanno trasformato l’arcipelago della Maddalena per capire cosa intendiamo. Il regolamento non è chiarissimo ma per tutelare la riproduzione delle tartarughe è praticamente proibito l’ancoraggio in quasi tutta la baia, in alcune parti è vietata anche la navigazione a vela. La cosa curiosa è che l’oggetto della tutela dovrebbe essere la nidificazione di questi animali che come si sa avviene sotto la sabbia delle spiagge, dove però non è proibito allestire stabilimenti ricchi di ombrelloni. Ci prepariamo però ad essere ligi, dirigendoci davanti al borgo di Keri, unica parte dove è consentito l’ancoraggio, a rallentare l’andatura, vegliando a prua l’eventuale incrocio con l’animale coriaceo. 
Proprio all’entrata della baia, ci accorgiamo di un forte odore di plastica bruciata, pensiamo subito si tratti della nostra ventola del motore o di qualche altra parte e corriamo a verificare. No, non siamo noi e non è plastica bruciata, è petrolio. Il mare non è incredibilmente calmo, è semplicemente cosparso di petrolio. Bel parco, non c’è che dire, speriamo che le tartarughe abbiano scelto altrimenti quest’anno. Scopriamo poi da Tzanetos, ristoratore locale, che il petrolio non viene da un disastro ambientale o dai barconi vomita turisti ma dalla terra stessa. Questa zona è soggetta a continui piccoli terremoti e spesso dal fondo del mare, dopo una scossa fuoriesce il petrolio. Vuoi vedere che è proprio per questo che le tartarughe hanno deciso di nidificare qui? Hanno forse intuito che dove c’è petrolio c’è vita?

giovedì 23 giugno 2011

Itaca. Petrosa e Ventosa.

Itaca e Cefalonia le viviamo come due scali. Abbastanza velocemente, un po’ toccata e fuga. Abbiamo voglia di scendere il Peloponneso e di privilegiare le isole piccole, almeno fino a Creta. La prima sera a Itaca prima di andare ad Atokos, ci fermammo a Ag. Nicolaos. Il vento soffiava potente e forti raffiche scendevano dalle montagne, abbiamo rinunciato subito a fermarci a Kioni o a Frikes dove i fondali profondi rendevano difficile l’ancoraggio. Ag. Nicolaos era un ottimo riparo, ben rafficato ma con mare calmo. In rada con noi altre due barche con equipaggio numeroso che si sono fissate anche con una cima a terra, operazione che per noi che siamo in due è un po’ troppo laboriosa con vento forte. Stare con la cima a terra ti permette di essere un po’ più stabile, la barca non ruota ad ogni raffica e l’ancora è sottoposta a minori trazioni. Un po’ come tirare il freno a mano in una macchina quando parcheggi in discesa, non devi fare affidamento solo sulla marcia ingranata. Poi in auto c’era anche il sistema di mettere un sasso sotto la ruota, ecco quel metodo può essere paragonato a Giovanni che va in apnea a incastrare bene l’ancora sotto la sabbia. 
Ora, di ritorno a Itaca dopo Atokos, abbiamo scelto di entrare a Vathi, il grande fiordo sul lato orientale dell’isola. Dopo poco ti sembra di essere in un lago, alte montagne tutto intorno e alla fine del fiordo il paesino di Vathi. Ci ancoriamo in rada e dopo poco ci raggiunge un gommone dello yacht vicino battente bandiera maltese con uno dell’equipaggio,  un italiano, che ci comunica che l’autorità portuale gli ha chiesto di spostarsi un po’ per lasciar spazio di manovra al traghetto e se poteva dirlo anche a noi che non avevamo la radio accesa. Ci siamo guardati e poi guardati intorno, lo spazio era parecchio e entrambi dobbiamo aver pensato “e che traghetto sarà mai?”. All’unisono abbiamo però detto “vabbé se lo chiedono, meglio farlo, non si sa mai”… L’esperienza di un traghetto che ti cala l’ancora sulla barca non deve essere gradevolissima. Il maltese è andato verso l’esterno, noi verso l’interno della baia. Il traghetto, in realtà è arrivato solo la mattina dopo e avrebbe potuto mettersi a ballare il valzer prima di attraccare tanto lo spazio che aveva a disposizione. 
Vathi è carina, porta i segni del terremoto del 1953 e della sua ricostruzione, ma è tranquilla e vivace al tempo stesso. A terra facciamo un po' di spesa e rifornimento di schede internet. Continuiamo però a vedere intorno a noi charteristi e penso che siano un po' come dei nuovi Proci, quindi capiamo Ulisse, lasciamo Penelope ad aspettarci ancora un po’ e riprendiamo il mare. E ogni giorno siamo un po' più a sud e questa, dovunque tu sia, è sempre una buona cosa!

mercoledì 22 giugno 2011

Atokos. Un gioiello troppo vicino alle basi charter.


Atokos ha due sole baie dove ci si può ancorare, Cliff Bay e One House Bay. Nomi eleganti per due cale di una bellezza incredibile. Ci deve essere una spiegazione geologica molto precisa per la conformazione atipica di questa roccia, una specie di calcare bianco friabile che ingloba delle pietre rotonde estremamente dure, sembra quarzo ma non è.  Forse, ma è una nostra azzardata ipotesi non suffragata da nulla, forse queste formazioni rotonde erano lapilli incandescenti che furono inglobati e cristallizzati nella roccia. Ogni tanto una di queste palle di pietra si stacca dalla roccia e cade a mare creando un effetto sonoro sordo e  preoccupante se la tua barca è nei paraggi della caduta. 
Acque turchesi, roccia falesica bianca, spiagge di sassolini rotondi. A One House Bay, una sola casetta sulla spiaggia e una piccola chiesetta, aperta ai visitatori. Il resto è ricchissima macchia selvatica, verdissima. Insomma, un paradiso sospeso tra Lefkada, Itaca e il continente… purtroppo però, un paradiso ben conosciuto dai diportisti. Sviluppiamo immediatamente la nostra consueta allergia ai charteristi, categoria umana su cui è sgradevole come sempre generalizzare ma, come mi rassicura sempre fare, lo faccio lo stesso.
Adesso, lo so, suona molto snob, criticare chi non avendo una barca a vela di proprietà, ne affitta una per un breve periodo occupando tutte le cuccette disponibili per abbassare il prezzo pro capite. Suona snob, pazienza. Inutile dirlo, c’è charterista e charterista, c’è quello capace e rispettoso degli altri, che si ancora alla giusta distanza, che non schiamazza tutto il giorno, che retrocede dal proposito di ancorarsi se lo spazio non è sufficiente, che non tiene il motore acceso in rada per caricare le batterie, che sa che l’ancora va calata non nel posto dove si desidera stare ma una decina o due di metri sopravvento, che se arriva per ultimo non pretende un posto in prima fila, etc, etc. Ecco questo genere di charterista è una specie rarissima probabilmente in via di estinzione. 
Il charterista tipo è ben altra cosa.
Spesso viaggiano in flottiglia, ciò significa più barche insieme, per un totale occupanti di circa 20 /30 rumorose persone, mettono i parabordi e si ancorano appaiate chiudendo alla vista grandi porzioni di panorama. Quando va bene a bordo c’è un cultore del mare, di solito è lo skipper affittato insieme all’imbarcazione, il resto degli abitanti vede il mare come qualcosa da consumare, occupare a piacimento e non ne ha nessuna cultura. Mangiano quasi sempre in pozzetto perché sottocoperta non ci starebbero. Non hanno evidentemente nessuna passione per la meditazione e hanno, nonostante convivano in uno spazio ristretto per due settimane, molte moltissime cose da dirsi, tutti insieme, senza sosta. Viaggiano con il bucato steso fuori e mai che si mettano d’accordo prima di partire per accordare almeno i colori degli asciugamani, voi direte, non possono se no come riconosce ognuno il suo? Fatti loro, l’estetica per mare ha la sua importanza. Impossibile farli rinunciare a scendere a terra con il tender, con armi e bagagli, solo che il tender per portarceli deve fare 3 viaggi e sempre, dico sempre, chi è già a terra ha l’impellente necessità di comunicare con il Caronte di turno che sta andando a prendere chi è ancora in barca “RICORDATI LA CREMA SOLARE E IL CAPPELLINO DI GIGGETTOOOOOOOOO”, così tutta la cala impara a conoscere l’eritema solare di Giggetto. Quando il cappellino e la crema arrivano, ovviamente Giggetto ha già preso a strillare come un’aquila e va riportato in barca. Arrivano nelle cale e buttano l’ancora. Punto. Poi si stupiscono se la barca si posiziona in un altro luogo, spesso entrano nelle baie a retromarcia e a velocità piuttosto sostenuta, quando gli fai segno di abbassare i giri del motore, ti guardano pensando  “Ma questa perché non si fa i fatti suoi…” poi evitano per un pelo la testa di un bagnante e ti fanno un segno di ringraziamento. E tu ti penti amaramente perché una tragedia forse avrebbe svuotato la cala più velocemente di una eruzione vulcanica. Se l’ancora ara sul fondo perché hanno dato 10 metri di calumo su un fondo di 8, non capiscono che tirarla un po’ su serve a poco.
A One House Bay ad Atoko, in tutto il giorno non c’è stato un momento in cui non ci fosse un motore o un verricello dell’ancora acceso. E sono cose che tolgono poesia anche a posti meravigliosi come questi. Molto meglio il giorno dopo a Cliff Bay, dove ci ancoriamo di mattina presto con cima a terra e siamo soli. Un paradiso per 4 ore, poi come sempre, ti individuano, ti puntano e ricomincia il rumore. Un charterista non va mai in una cala vuota, dove non vede nessuno non si ferma. Passa veloce al largo, poi ti vede, inchioda per quanto possibile con una barca a vela, devia bruscamente dalla rotta e allegramente punta la prua su di te.  In certi momenti penso che li sterminerei senza alcun senso di colpa.

lunedì 20 giugno 2011

Lefkada, Vassiliki Bay. Una giornata tra derive e un'amicizia senza tempo


4 anni in banco insieme al liceo, 6 mesi di convivenza e anni di lontananza e di contatti che definire sporadici è un eufemismo. Ed eccoci a ritrovarci (sapendolo e volendolo eh? Non una coincidenza) a Vassiliki Bay, Sud Est di Lefkada. Tes ed io. E così, in un attimo che cancella il passare di qualsiasi tempo, siete insieme su un laser a parlare di qualsiasi cosa come se lo si fosse fatto ogni giorno, come se ci si fosse viste la settimana scorsa a cena. Tes e la sua famiglia. Edoardo, nostro compagno di scuola che lei ha ritrovato in Giordania e con il quale ha girato mezzo mondo e la loro prole, di cui un elemento l’ultima volta che l’ho visto in un giardino romano aveva 6 mesi, l’altro invece non lo avevo mai visto con gli occhi aperti e da sveglio. Tommaso e Michele scorrazzano con le loro barchette, un catamarano per Tommy, una deriva più piccola per Michele. Due ometti, belli come il sole, diversi tra loro ma ognuno così simile alla sua mamma, bimbi che hanno girato il mondo e per i quali il breve periodo in Olanda deve essere stata un’avventura, visto che il resto della loro vita lo hanno passato in Paesi come lo Yemen, Capoverde, il Kenia dove sono tuttora. Negli occhi gli si legge la pazienza e la saggezza che verranno a quelli che per indole o per educazione hanno guardato il mondo e gli altri con curiosità, mente aperta e senza sterile spirito di competizione. 
Vassiliki Bay è un posto che ha un suo perché. Preciso, onesto e così lontano dal turismo vorace che tutto consuma in un attimo. Chi viene qui ama la vela, nelle sue diverse accezioni: laser, catamarani, windsurf e viene qui per questo, per il vento che si alza il pomeriggio e per la brezza gentile della mattina, alle 11 il mare è costellato di piccole barche che bordeggiano senza stancarsi mai. Noi arriviamo di sera e siamo l’unica barca a vela (in senso di yacht) che si ancora qui, in questo enorme golfo di acqua calmissima. Siamo quasi in soggezione. A terra ci fanno i complimenti per P'acá y p'allá. Si respira un’aria serena, senza fretta, gentile, senza l’ansia del turista o del villeggiante stressato, senza l’angoscia di consumarsi gli occhi a vedere cose per ottimizzare il tempo a disposizione. Si respira a Vassiliki Bay, io soprattutto. Andando via col tender, Tes mi saluta con “siamo felici di aver fatto parte del vostro viaggio”. Anche noi, che altro dire? Il resto ce lo racconteremo a Lamu il prossimo febbraio.
Il resto di Lefkada lo teniamo per il girone di  ritorno del nostro viaggio, prima di arrivare a Vassiliki, abbiamo fatto una breve sosta sulla costa occidentale, a Porto Katsiki e sulla spiaggia di Egremnì dove finalmente troviamo un’acqua a 25 gradi e il bagno diventa estivo. Proprio sopra di noi, la rupe del Salto di Saffo, dove si dice si sia gettata in mare la poetessa per cercare la morte, vittima delle sue pene d’amore. Adesso però, io non ci credo. Siamo proprio sicuri che volesse morire e non sia semplicemente inciampata o, sovrastimando le sue capacità, abbia voluto semplicemente fare un tuffo? 
Non riesco a collegare queste acque turchesi ad un proposito di suicidio, molto più logico immaginare di ambientare un tale gesto in acque blu profondo, un set tipo Capo Caccia in Sardegna per intenderci. Certo, per Saffo, andare in Sardegna non doveva essere così pratico. Comunque il dubbio resta. Incidente, suicidio o incoscienza?

giovedì 16 giugno 2011

Antipaxos. Il bello degli "Anti".


Ci sono posti che davvero non hanno bisogno di parole. Meglio descriverli in immagini. In Grecia, le isole che si chiamano “Anti Qualcosa” vale sempre la pena di visitarle. Di solito, come nel caso di Antipaxos, sono quasi del tutto disabitate, qui si contano 120 anime di residenti, sono probabilmente prese d’assalto dalle gite giornaliere in estate con barche che partono dalla vicina “Qualcosa” quella di cui appunto sono Anti per poi diventare un vero paradiso dopo il tramonto. Nel nostro caso l’assalto quotidiano è molto discreto, visto che siamo ancora a Giugno e la sera in rada ci troviamo da soli. 
Nella baia di Voutoumi, dopo le 6 i gabbiani regnano sovrani. Davanti a noi, sulla spiaggia la taverna Voutoumi, si intuisce che non è aperta, non avrebbe un gran senso che lo fosse. Però c’è una lucina accesa, secondo me i proprietari vivono lì, magari ci stanno guardando e si stanno chiedendo se andremo a chiedere di mangiare. Sono sicura che aprirebbero anche solo per noi, ma non ci va di far aprire un ristorante. Ci prepariamo un casalingo spaghetto alla puttanesca con pomodoro fresco, olive nere, capperi e tanto origano e regaliamo al mare gli avanzi per farli litigare ai gabbiani e alle occhiate. 
Antipaxos ricorda molto Plage du Loto, in Corsica nel deserto degli Agriati,  simili distese di acqua turchese, simile roccia a falesie calcaree bianche, simile anche la macchia sovrastante. Queste somiglianze fanno riflettere sulla nascita della terra, sembra proprio che questa parte si sia staccata da lì eppure ci sono diversi mari in mezzo. Come andare in Nuova Zelanda e trovare qualcuno che ti somiglia come una goccia d’acqua…

mercoledì 15 giugno 2011

Paxos. Caspita, è già estate!


Da due cose capisco che è già estate: la prima è che mi incazzo con l’idiota che si ancora troppo vicino nel golfo di Lakka e la seconda è che la nostra barca mi sembra più lunga.  La prima delle due cose è spiegabile con il fatto che per gli inglesi, francesi, tedeschi, belgi, norvegesi, etc l’estate non è necessariamente agosto, come per gli italiani. Paxos ci appare quindi discretamente affollata, ma solo nel porticciolo di Lakka, una enorme piscina di acqua turchese protetta da tutti i venti e antistante un villaggio di pescatori oggi per lo più convertiti alle attività turistiche. La seconda invece è che col sole a picco il teak diventa bollente e camminare da poppa a prua verso mezzogiorno è un’impresa un po’ da carboni ardenti. Ma si può fare, sempre meglio che lavorare (meglio che lo scriva altrimenti parenti e amici che magari mentre scrivo sono in riunioni noiosissime potrebbero mandarci maledizioni che per mare suonano preoccupanti.) Paxos è bellissima, che altro dire, la costa occidentale orlata da rocce che terminano in grotte sul mare grandi come bifamiliari e inframmezzata da piccole spiagge di ciottoli bianchissimi. 
Se devo sceglierne una, scelgo la Baia di Erimitis con la franata di roccia bianca alle spalle e  la macchia verde scuro tutto intorno. Ma ce ne sono tante e ovunque è acqua turchese. Tolto all’ormeggio serale a Lakka dove siamo una ventina di barche, nelle cale  non c’è assolutamente nessuno. La temperatura dell’acqua è tra i 19 e i 20 gradi, l’entrata è un po’ meditata forse, ma quando sei in acqua non usciresti più. Intanto dall’Italia giungono notizie confortanti: sono lieta di sapere che, pur senza la nostra doverosa partecipazione, il referendum ha ampiamente raggiunto il quorum, altrettanto felice di assistere, anche se da vicino doveva essere una esperienza ben più entusiasmante,  ad una inesorabile debàcle dell’attuale governo. Quel che però mi preoccupa, è la minaccia di Berlusconi, pronunciata mesi fa, di prendere il mare non appena gli italiani non lo avessero più voluto al governo. Ecco… per cortesia, tenetevelo, ancora per un po’. In fondo mese più, mese meno, che differenza c’è. Forza Silvio, resta almeno fino a fine anno. Scherzo, scherzo… vada pure, tanto la barca ce l’ha ai Caraibi.  
Mentre scrivo, siamo ormeggiati a Porto Gaios, il paese principale dell’isola. Il canale che conduce al porticciolo è stretto e di fondali abbastanza bassi, diciamo più che altro che la nostra barca magari non è quasi mai la più grande dei porti ma quasi sempre è quella che ha la deriva più lunga. 
Francesca - Paxos 1973
Prima di ormeggiarci dobbiamo quindi sondare con attenzione il fondo, ci aiutano a perfezionare l’ormeggio il vicino di destra, un greco, e quello di sinistra, un francese. La nostra barca è nettamente più bella delle loro (tié). Ero già stata a Gaios poco meno di 40 anni fa, con mamma, papà, due fratelli, una carovana di amici e un gommone arancione Callegari con un Evinrude 20 cavalli. Non ricordo molto, a parte – e quello ben vividamente – un incontro con uno squalo che i parenti presenti all’episodio continuano a considerare una mia fantasia e che invece, secondo me è ancora qui ad aspettarmi. Non ricordo granché perché ero davvero piccina, ma il paese non mi sembra molto cambiato, solo che il canale tra il moletto e l’isola di fronte era nella mia memoria molto ma molto più ampio. È assurdo pensare che tu cresci ma le cose intorno a te no, quindi inevitabilmente ti ritrovi a rivederle molto più piccole rispetto a quello che ti aspetti. Non oso pensare alla “ciabatta” di Nino (una sorta di pizzella di pasta cresciuta) che prendevo allo stabilimento dei Due Pini e all’epoca per riuscire a mangiarla dovevo tenerne la base all’altezza dell’ombelico. Oggi sarei sicuramente delusa dalle sue dimensioni.
Da questo pensiero, ne nasce un altro: se uno fosse alto 20 cm, gli basterebbe una barca di un metro, due metri per star comodi, un’opportunità davvero unica, tutto sarebbe estremamente più semplice e più confortevole, oltre che più economico. Espongo questo pensiero a Giovanni che saggiamente mi fa notare che una barca di due metri con mare formato, diciamo un’onda di 3 metri, non è un granché. Ecco le cose non crescono con te e non si riducono nemmeno insieme a te.
Ciò che continuerà a sembrarmi sproporzionato e che durante l’infanzia mi avrebbe sicuramente molto preoccupata è la dimensione delle insalate greche, ormai abbiamo imparato a chiederne una sola porzione da dividere in due, ma ti sembra sempre di affogare in un mare di feta, cetrioli, peperoni e pomodori con le olive come boe a cui aggrapparti. Quella della Taverna Vasilis, un po’ dietro al porticciolo, più nascosta con i tavolini che occupano un quadrivio di strade, è ottima. Dite quel che vi pare, ma in Grecia, secondo me, si mangia un gran bene.

martedì 14 giugno 2011

Corfù. The Greek Connection.

Noi in quest’isola ci siamo venuti solo per questo: dotarci di una connessione internet per il pc, in modo da poter, in primo luogo, essere informati sulla meteo, e poi tutto il resto (le mail, il blog, il lavoro per Giovanni, i pagamenti dell’IVA, delle spese di condominio, etc, etc). Infatti, per quanto tu stacchi i fili, continui ad avere scadenze da rispettare, è genetico temo, ce l’abbiamo nel DNA e lo programmiamo nelle nostre moderne società civili. Non che Corfù non meriti una visita anche per altri motivi, sia chiaro, la città è molto particolare, una convivenza di stili dovuti ai molti domini e  colonizzazioni dell’isola che anticipava di parecchio il concetto di multietnico, oggi tanto in voga. Un po’ Parigi, un po’ Venezia, un po’ Grecia, un po’ Turchia, Kerkyra ha molte anime e, forse per questo è una città molto accogliente. Ma torniamo al motivo principale della nostra presenza qui, contestualizzata al Marina Gouvia, a circa 7 km da Kerkyra città. Entrare in un Cosmote Shop è allo stesso tempo molto simile e molto differente dall’entrare in un nostrano negozio Tim. Molto simile perché in entrambi tu entri pensando di avere una piccola esigenza da risolvere e ne esci con un enorme problema e una discreta dose di angoscia esistenziale; estremamente simile è anche il risultato che raggiungi, il commesso Cosmote non risolverà il tuo problema esattamente come non lo risolve il commesso TIM e dovrai percorrere chilometri, accendere più volte il computer, chiamare l’assistenza, tornare al negozio, cercare un altro negozio per, alla fine, risolvertelo a modo tuo. La differenza invece sta nel fatto che mentre in Italia il commesso TIM se ne strafrega del tuo problema e  molto spesso  non cerca neanche di nascondere questo suo amabile sentimento, il commesso Cosmote soffre insieme a te e molto, decisamente molto più di te.  Appena gli esponi la tua semplice esigenza - nel nostro caso una connessione internet ma ho la sensazione che l’esperienza valga per ogni tipo di richiesta - la signora del Cosmote si lancia in una discussione animata, tanto drammatica quanto incomprensibile, non con te, non sia mai, anzi, hai l’impressione che abbia chiesto e ottenuto la tua tutela come hai messo piede in negozio. No, non con te, la discussione nasce con i colleghi, o al telefono con la centrale Cosmote e tu, che non capisci un’acca di quel che dicono in quella strana lingua se non “internet on the go”,  hai la sensazione che non si stia parlando di una semplice superflua chiavetta internet ma di una necessaria immediata dose antiveleno da somministrare nel giro di 5 minuti per evitare una morte certa. Tale infatti è la sollecitudine e la febbrile attività della tua “mamma Cosmote” che addirittura convincerà un altro cliente a portarti con il suo furgoncino a un negozio in centro, ti telefonerà successivamente per verificare l’andamento del dramma, ti aprirà la porta il giorno dopo anche se sono formalmente in sciopero. Con tutta questa sollecitudine, forse proprio grazie ad essa, ci abbiamo messo 24 ore per avere una semplice connessione. Alla fine siamo riusciti a requisire tutte le card ricaricabili di Corfù per un totale di 50 euro. Fino ad Agosto, siamo a posto, dopo di che speriamo in Creta. Qui in Grecia, la gente non sorride molto, non scherza per niente, si incazza pure parecchio, però prende a cuore il tuo problema e fa di tutto per risolverlo. Anche la signora dell’autorità portuale che mi chiede 15 euro perché è il nostro primo ingresso, ma poi mi ripete più e più volte che nei prossimi porti non devo pagare questa tassa perché vale per tutto l’anno. Per certezza me lo fa ripetere e alla fine me lo ridomanda guardandomi dritto negli occhi che neanche agli esami di maturità, per essere sicura che io abbia capito. Adesso, probabilmente non le sono sembrata intelligente, però dava l’impressione di essere anche genuinamente interessata a che io non incorressi nel rischio di pagare nuovamente la tassa. Avete mai visto questa preoccupazione in un funzionario italiano?

Comunque, acquistati telefono greco e connessione greca, i tuoi problemi sono appena iniziati. Devi infatti attivare la carta, cosa semplicissima, basta digitare i tasti giusti alle domande dell’operatore. Che sono in greco... Parakalò pietà, vorresti gridare. Ma alla fine te la cavi, come si vede da questa pubblicazione avvenuta al ritmo di una media di 0,30 kbps, e un po’ hai riassaporato il ritmo frenetico della vita lavorativa. 
Felice poi di allontanartene nuovamente e far silenziosamente rotta verso Paxos.


sabato 11 giugno 2011

Erikoussa. A un passo dall’Albania.

Ed eccoci alla seconda isola delle Diapondie, 7 miglia a Est di Othoni. Arriviamo a Erikoussa con un bel vento al traverso di oltre 20 nodi e onde formate. Navighiamo col solo fiocco e facciamo più di 8 nodi. Ci accompagna lungo tutto il tragitto un grande delfino grigio che non si stanca di giocare con noi. Dopo una mezz’ora di salti suoi e nostri sulla prua, di grandi chiacchierate in versi strani, di sguardi incrociati, noi torniamo al timone e lui continua a ballarci intorno. È il primo animale marino che incontriamo nello Ionio, bene, questo vuol dire che questo mare non è morto come sembrava, proprio mentre cominciavamo a sentire nostalgia del Tirreno. 
Oggi c’è un po’ più di movimento per mare, c’è stata nei giorni scorsi la regata Brindisi Corfù e incrociamo diverse barche che tornano verso l’Italia, non le invidio affatto, vento forte e contrario, mare molto mosso. Come sempre mi chiedo chi glielo fa fare, non riesco proprio a dare un senso al mare inteso come competizione sportiva, non posso che trovare disarmonico il navigare con il percorrere rotte obbligate in tempi serrati, pensando solo ad arrivare per primi. Il pensiero va a Moitessieur che trovandosi in testa al giro del mondo in solitario dopo parecchi mesi di navigazione e a poco dal traguardo, decise di mollare la gara per continuare a navigare e fare un secondo giro del mondo… non gli era bastato, si vede, o probabilmente di arrivare primo non gli importava un granché.
La grande baia di Erikoussa ha quindi un po’ più di vita di quella che abbiamo visto ieri a Othoni, parliamo sempre di una decina di barche in tutto che incrociamo nel corso dell’intera giornata, non di più. 
L’isola non ha baie particolari come Aspri Ammos di Othoni, ma merita la visita. Scendiamo a terra e percorriamo il sentiero che ci porta verso il lato esposto ai venti che continuano a soffiare forti da Nord Ovest. Nel villaggetto sulla baia alcune taverne promettono pasti genuini di pesce ma noi ci limitiamo a prenderci un pagoto (gelato) e torniamo in barca. L’Albania è a un passo, la terra è brulla e per lo più deserta inframmezzata da spazi a grande densità abitativa con palazzi di 10 piani, siamo incuriositi ma decidiamo di restare in Grecia. Il tempo per noi continua a esssere una variabile leggera, anche se spesso ci viene l’ansia di andare avanti, la Grecia ha 1.500 isole e ogni tanto ci viene la folle idea di vederle tutte. Anche questa è competizione e non è bene, dovremo scegliere, dovremo necessariamente decidere di saltarne qualcuna, più di qualcuna… Sì ma quali saltare? Oggi per esempio, consultando le carte, abbiamo deciso che le Strofadi dovranno far parte del nostro itinerario, si tratta di un paio di scogli in the middle of nowhere a 25 miglia a sud di Zante, le isole più vicine alla piana abissale ionica (il nome, credo, la dice lunga…), questo vuol dire che dovremmo seguire la rotta del Peloponneso, invece di tagliare il canale di Corinto, ovvero miglia e miglia in più. Però vorremmo che il nostro viaggio fosse focalizzato più sulle piccole isole che sulle grandi e le Strofadi possono senz’altro essere annoverate tra le prime. Staremo a vedere, siamo solo all’inizio e non abbiamo appuntamenti da rispettare.

giovedì 9 giugno 2011

Othonoi. La prima Grecia che incontri sa di Caraibi

 50 miglia quasi interamente a vela, prima in poppa poi al traverso. Vento buono da 10 a 20 nodi. Alla fine il canale di Otranto con noi è stato davvero clemente. Per non farci impigrire troppo però ci ha regalato una piccola avventura: mentre navigavamo piacevolmente di lasco con il gennaker a piena vela, vado un attimo sottocoperta e sento un gran botto, come un’esplosione e la barca che improvvisamente rallenta. Troppo forte il colpo perché potesse trattarsi di Giovanni caduto in mare, troppo lieve per essere uno scoglio che poi peraltro con 700 metri di fondo era anche abbastanza improbabile. Una balena che ci prende a capocciate, penso, ma il tonfo non veniva tanto dallo scafo quanto dall’alto… Sono domande inquietanti ma la cosa buona è che sono anche  domande che in barca trovano quasi sempre una rapida risposta. Si trattava del gennaker appunto, esploso come un seno al silicone e finito in mare appeso alla barca al nostro fianco. La vela, però, si vedeva, era tutta intera o almeno non aveva strappi evidenti. Comincia così il laborioso recupero del gennaker dal mare, e solo chi l’ha provato sa cosa vuol dire, nel nostro caso poi, non si trattava solo della vela ma dell’intero sistema Bamar, ovvero un serpentone di gomma lungo oltre 20 metri con rollagen incorporato, una cosa moderna che serve per arrotolare il gennaker e tirarlo giù più comodamente… quando appunto non viene giù da solo in questa strana maniera. Rallentiamo la barca lascando la randa e, facendoci una doccia indesiderata di acqua di mare, issiamo a bordo la nostra vela, serpentone di gomma incluso. Il danno è nullo, si era semplicemente spezzato il grillo (una specie di moschettone) che teneva la vela fissata in testa allo strallo di prua. Adesso, come mai si spezzi un grillo di acciaio con un vento di 12 nodi, non ci è chiaro, ma è successo e per fortuna senza i danni che di solito seguono un evento del genere. La domanda che ci accompagna per il resto della traversata riguarda la drizza del gennaker… che fine avrà fatto, se è finita dentro l’albero è un guaio, speriamo sia rimasta incastrata in testa…. Giovanni mi guarda e dice “qualcuno dovrà salire in testa d’albero appena arriviamo per verificare”, quando dice “qualcuno” di solito, non è chiaro il perché,  si intende la sottoscritta.
Finalmente eccoci arrivati con oltre un mese di ritardo rispetto al nostro programma originale, ma siamo qui, pronti ad accumulare isole su isole fino a farci venire la nausea.

L’impatto con la Grecia è di stampo tropicale. La piccola Othonoi, a nord di Corfu, una delle tre isole delle Diapondie è una meraviglia trascurata dalla maggior parte dei turisti e dei naviganti che, per la fretta di raggiungere la destinazione, di solito dirigono direttamente verso la più conosciuta e ben più affollata Corfù. Othonoi è un micro paesino di 10 case e 4 ristoranti lungo un molo, non particolarmente affascinante come struttura, con architetture da geometra di 1° generazione, però l’atmosfera è magica, il tempo ha più tempo del solito, l’armonia vince su tutto. Ma perché tropicale? 
 A sud Ovest dell’isola, proprio sulla rotta di chi proviene da S. Maria di Leuca c’è Aspri Ammos, una spiaggia che è un po’ Petite Anse di La Digue (Seychelle), un po’ Caraibi, e se ci metti due palme forse fa pensare alla Polinesia. Questo per i colori del mare e di roccia e sabbia, con l’aggiunta per gli amanti della montagna, di una suggestione Dolomitica data da 500 metri di montagna di pietra a picco sul mare. Non abbiamo potuto esimerci dal fermarci a fare un bagno. Anche se nel frattempo il vento era aumentato, la conformazione della cala offriva un piccolo riparo e tutto intorno il mare ribolliva di schiuma. Con noi solo un’altra barca.  Per quanto in ritardo (ma poi, in ritardo con chi???), decidiamo all’unanimità di tornarci domani e fermarci qui tutto il giorno. 

Prima del tramonto andiamo ad ancorarci per la notte in un’ampia baia a Sud Est dell’isola, il vento soffia deciso oltre i 20 nodi e raffiche scendono rabbiose dalla montagna: la condizione ideale per salire in testa d’albero. Adesso questa operazione merita due parole in più. Quando l’equipaggio è formato da due persone, una viene imbracata e issata per 18 metri in altezza  con un bansigo tenuto dalla drizza della randa e – come sicurezza – dall’amantiglio, l’altra persona è quella che tiene in mano la vita del suddetto facendo le operazioni necessarie per compiere questa salita antigravitazionale. Un compito che grazie al whinch elettrico non è faticoso, ma certo è di grande responsabilità e precisione. Inutile dire cosa avviene del soggetto imbragato nella fase di discesa nel caso in cui quello ai comandi si distrae, o viene punto da un’ape, o chissà che altro e ops! dimentica di fermare la drizza: un volo di 6 piani di altezza. Certo se si finisce in mare, potrebbe non essere così fatale, ma sotto non c’è il mare, c’è una bellissima barca con un ponte in teak e tanti tubi di acciaio tutt’intorno. Se poi aggiungi che i due dell’equipaggio sono anche marito e moglie e che sono sposati da 20 anni e che è la moglie quella che fa la parte del salame ascendente potrai comprendere come l’operazione sia accompagnata da una certa inquietudine. Detto questo, salire in testa d’albero è un’esperienza meravigliosa e quando sei su vorresti fermarti più a lungo perché la barca da lassù è bellissima, complice la prospettiva inusuale, il mare è uno spettacolo e ti sembra di essere padrona del mondo. Certo, ti riempi di lividi a furia di cercare di restare aggrappata all’albero e alle crocette mentre il vento si diverte a farti dondolare come un pendolo, però quando inizia la discesa un po’ ti dispiace. Comunque siccome non era una scampagnata, la buona notizia è che la drizza del Gennaker era proprio incastrata nella sua puleggia e con un po’ di trazione è uscita fuori e l’ho riportata giù.

In più, e non è poco, posso a questo punto dire con estrema certezza che Giovanni non desidera farmi fuori, o quanto meno, non ancora.