sabato 30 luglio 2011

Kouremenos. Il paradiso dei surfisti.


Venti a 40 nodi e noi ci fermiamo qui, a Kouremenos, Creta Est. A prendere tempo e sciogliere il dilemma se fare il tratto di mare duro a ritroso verso Agios Nicholaos per una sosta tecnica in marina o sfruttare il dopo burrasca per andare a Kassos e poi, il cambio d’olio e filtri si vedrà, magari ce lo facciamo da soli. 
Questo grande golfo è il regno dei windsurf, mare sempre calmo, vento sempre forte. Qui il kite non è ancora arrivato, nel centro del golfo la nostra barca ancorata viene vissuta come una sorta di boa da un esercito di windsurfer che variano da 3 o 4 quando il vento strilla forte a quasi 50 quando diventa più gentile in linea con la mitica legge del “quando il gioco si fa duro i duri iniziano a giocare” e, si sa, i duri sono numericamente inferiori ai mollaccioni. E i duri sono anche un po' narcisisti, lo sappiamo bene. 
Non appena Giovanni inizia a fotografarli, ecco che un paio di surfer si distinguono per bordi brevi molto vicini alla nostra barca tentando, spesso vanamente, di compiere acrobazie coreograficamente esemplari. 
Il nostro tender, legato a poppa, è visibilmente terrorizzato. Nessuno ha il coraggio di chiedere a Giovanni le foto cui sono visibilmente parecchio interessati e spietatamente Giovanni non fa un gesto per facilitare loro la richiesta. Un po' ci si affeziona a queste velette piccine che corrono avanti e indietro... 
Ma la sorpresa, quella vera, l’acme inaspettato e per questo emozionante arriva la mattina dopo, quando uscendo in coperta vedo un miraggio: una barca a vela, dico una BARCA A VELA, ancorata a 2-300 metri da noi. È un Sun Odissey 40 battente bandiera svizzera…. Ci sono ancora le barche a vela, c’è ancora gente che va per mare. Con cautela, preparo Giovanni, che a 50 anni suonati non so se è in grado di reggere il colpo, “Esci a vedere una cosa ma fallo stando seduto, eh?” (per inciso, non c’è modo migliore per far smuovere una persona di un richiamo di questo tipo, bisognerà utilizzarlo anche in avanti e anche con altri personaggi). 
Visibilmente commossi, restiamo un paio d’ore a guardare questa barca, peraltro non particolarmente bella. Sono più di 20 giorni che non ne vediamo una, avevamo cominciato a pensare che fosse stato diramato un coprifuoco nautico di cui non eravamo al corrente o fosse stato emesso un avviso di tsunami. 
Restiamo lì, incantati, senza avere il coraggio di avvicinarci per la paura di restare delusi dall'equipaggio che, a questo punto, deve essere per noi un po' come Eva per Adamo quando se la vide arrivare in Paradiso. Ci interroghiamo su di loro, da dove vengono, dove andranno, facciamo ipotesi persino sulla loro cambusa (io mi immagino quintali di Emmenthal stipati a bordo, ma solo perché non ho idea di quale altra specialità gastronomica ci sia in svizzera).
Insomma, per un breve periodo di tempo, nutriamo per gli amici svizzeri un sincero affetto fraterno. Roba di poche ore, però. 
Quando scendiamo a terra e andiamo a cena nella piacevole taverna “Votsalo”, la commozione è già passata e vorremmo pregare gli svizzeri di andarsene che ci rovinano l’inquadratura. In ogni caso è bello notare come, dal confronto, P'acá y p'allá esca decisamente vincente, è come mettere vicina Grace Kelly a una qualsiasi velina rifatta chirurgicamente (non facciamo nomi per fair play).
Poco più a nord di Kouremenos, troviamo Vai, il cui nome sembra che  anticamente significasse palma. Curioso pensare ad un abitante di Vai, magari gli chiedevano "Dove vai?" "A Vai", sembra un po' il gioco di "Dovevai? alcinema. Achevedere? Quovadis. Chevuoldire? Dovevai...". Ok, lasciamo perdere... Vai è una spiaggia amena, sormontata da un palmeto immenso, una specie endemica di palme. Secondo alcuni invece, tale palmeto naturale nacque dai noccioli di dattero sparsi dai legionari romani di ritorno dalla conquista dell'Egitto. Ma tale tesi non sembra trovare fondamento, deve essere stata una di quelle sparate romane che probabilmente erano proverbiali anche all'epoca dei nostri avi.
L’effetto è molto particolare: sembra di essere in un’oasi nordafricana e in effetti non siamo poi così lontani… A questo punto l’indecisione è passata, andiamo a Agios Nicholaos: vince il meccanico e la lavanderia e forse anche il compromesso culturale di una gita nell’entroterra a visitar rovine. Il Dodecaneso può attendere.

lunedì 25 luglio 2011

Gaidouronisi e Koufonisi. Sembrano nomi da calciomercato


E invece sono due sputi di isolette a Sud e Sud Est di Creta. Il nostro lavoro artigianale incontra un piccolo ostacolo. Lavoro? Oh, nulla di preoccupante. Da ogni isola che tocchiamo prendiamo un sasso rappresentativo, per il tipo di roccia oppure per la forma oppure per la dimensione, quando va bene riusciamo a rispettare tutti e 3 i parametri. Sopra ad ognuno scriviamo il nome dell’isola che il sasso dovrebbe rappresentare. L’idea è quella di collocarli poi in piano a ricreare questo magico mare. La cosa più difficile è rispettare le proporzioni e infatti penso che alla fine il puzzle che ne verrà fuori sarà una visione lievemente distorta della realtà, d’altra parte anche i grandi cartografi come Hortelius si concedevano parecchie licenze.
La difficoltà in questo caso è prendere dei sassi di Gaidouronisi e Koufonisi, rappresentativi per proporzioni delle stesse ma allo stesso tempo riuscire ad iscriverci il loro nome sopra. Benedetti Greci, potevate chiamarci Creta con un nome lungo che di spazio ne ha, no?
Vabbé, parlando di cartografi antichi, il pensiero corre spontaneo a quelli moderni. C’è una società che realizza la cartografia per il GPS, la Navionics. Queste carte vengono vendute in cartucce a prezzi non propriamente modici, quella base del Mediterraneo costa 200 euro  ma le valgono tutte, visto che per mare è meglio sapere che fondale hai davanti prima che l’ecoscandaglio lo rilevi sotto la prua. Sono praticamente la versione moderna, più pratica e molto meno ingombrante delle storiche carte nautiche. Bianco, azzurro e turchese:  quando navighi sul bianco, stai tranquillo, sono acque profonde superiori ai 20 metri, nessun rischio, quando sei sull’azzurro sei tra i 20 e i 10 metri, tranquillo ma vigile, nel turchese sei sotto i 10 metri e la carta ti segnala tutto ciò che è di profondità inferiore, sia che sia emerso sia che sia sommerso, scoglio o relitto. Solo che ci sono zone che sono molto ben descritte, le più frequentate, per esempio in Corsica e Sardegna. Su queste carte puoi fare affidamento e ti dettagliano quasi ogni scoglio e ogni secca con precisione efficientissima. 
Ci sono altre zone invece, dove a solo guardarle capisci che sono state fatte un po’, diciamo, a tirar via. D’altra parte, a giudicare dal traffico che abbiamo osservato e descritto nei post precedenti, non si può nemmeno pretendere che la Navionics investa nel dettagliare queste zone solo per noi, no? Comunque, me li immagino facilmente alla Navionics, il grande capo che entra nell’open space degli operatori e dice: “Qualcuno di voi è stato a Gaidouronisi, Creta Sud?”. Silenzio. Poi una voce dal fondo “Sì, mio cugino, tanti anni fa, mi pare che disse che è tutto bassofondo lì intorno”. “Qualcun altro?” chiede speranzoso il capo. Silenzio. “Vabbé, metteteci tutta un’area turchese  per mezzo miglio, no anzi per un miglio intorno e un po’ di crocette qui e là, anzi tante crocette….” E poi rivolgendosi alla segretaria “Signorina, l’abbiamo messo il disclaimer che ci manleva dalle responsabilità sull’attendibilità della cartografia, vero?”. “Tranquillo dottore, abbiamo fatto come ci ha detto l’ufficio legale, c’è una mascherina con questa precisazione che si apre ogni volta che viene acceso il GPS e per proseguire nella consultazione, il cliente deve digitare il tasto ACCETTA”.
Ecco secondo me, più o meno, alla Navionics le cose devono andare così. Comunque, se anche le carte fossero precise meglio sempre non fidarsi troppo. Noi usiamo la tecnica dell’uomo a prua, anzi, della donna, visto che è uno dei compiti che spetta a me perché non si sa come mai, leggenda vuole che io ci veda meglio. Adesso, quando navighi in quel famoso miglio di turchese intorno a Gaidouronisi che significano tra i 2 e i 7 metri d’acqua, non è che sia proprio così facile intuire se il fondo stia salendo o stia scendendo guardandone la superficie, né tantomeno individuare le “passe” per arrivare nelle cale.  In ogni caso si fa di necessità virtù e credo di essere diventata piuttosto bravina nello stimare le profondità e le tipologie di fondale. Finito il viaggio, mando un curriculum alla Navionics.
Ma torniamo alle nostre isole, Gaidouronisi, rinominata dai saggi cretesi “Chrisi” è conosciuta come il caraibe dell’Egeo. A 10 miglia da Ierapetra, viene raggiunta in giornata da 5 o 6 barconi che portano turisti, ma l’isola li contiene tranquillamente, si spargono sull’intera costa sabbiosa e sembrano formichine. Il campeggio libero è rigorosamente vietato ma consentito, questa che appare una contraddizione ha in sé il bello dello spirito greco che assomiglia spesso a quello partenopeo. Tutto intorno all’isola, famosa anche per la sabbia fatta quasi interamente di conchiglie, c’è questa enorme distesa di turchese, ben più grande dell’isola stessa. 
Koufonisi, invece è all’estremità sud est di Creta, a circa 3 miglia da essa. Qui, non c’è nessuno, forse perché non ci sono paesi sull’isola principale fatto sta che di nuovo troviamo il deserto. Io la preferisco, anche qui la Navionics ha ottimizzato come si dice, e il nostro navigare è un incedere in un dedalo di scoglietti, però quando arriviamo alla doppia cala esposta a Libeccio, il bagno che facciamo dà un senso alla fatica. Sembrano geologicamente simili le due cale, invece in una l’acqua è limpida, nell’altra torbida, ci accorgiamo che quest’ultima ha in più una roccia di caulino che rende la visibilità pari a 0. Immaginate di spargere nell’acqua un po’ di borotalco e avrete un’idea più precisa. Salutando Koufonisi, diamo il nostro addio a Creta Sud e iniziamo a risalire il lato est, entro sera vediamo all’orizzonte quella che dopo una sosta tecnica nel marina di Agios Nicolaos, sarà la nostra prossima meta: l’isola più a sud del Dodecaneso, Kassos.

sabato 23 luglio 2011

Agia Galini e un primo bilancio


Tempo di bilanci questa settimana. Il 18 luglio il nostro viaggio ha compiuto due mesi, siamo un po’ in ritardo ma contiamo su un’estate che si prolunghi fino a Natale.
Ecco alcuni numeri:
- Miglia percorse: 1.600
- Miglia da percorrere: almeno 2.000 (calcolo molto approssimativo visto che i programmi li cambiamo facilmente)
- Ore in cui il motore è stato acceso: 250 (incluse quelle a barca in rada per ricaricare le batterie)
- Rifornimenti nafta effettuati: 618 litri
- Acqua prodotta dal dissalatore: 900 litri
- Isole visitate: 23 greche, 4 italiane
- La best three: Gramvousa, Antipaxos, Gavdos
-  giorni di pioggia: 1 a Tropea
- massima raffica di vento registrata: 40,7 nodi
- massima velocità raggiunta: 12.1 nodi
Ma poi, servono a qualcosa i bilanci? Tutto sommato, non credo servano più dei buoni propositi...
Agia Galini è una bella sorpresa di porto. Porto nel senso ellenico del termine ovviamente. Ci arriviamo con l’onda lunga provocata dalla burrasca da ovest incontrata a Gavdos e man mano che ci avviciniamo il vento affievolisce fino a tornare a zero. Entriamo nel porto dove il molo per il transito è completamente vuoto fatta eccezione per un gommone cabinato italiano e una barca a vela, più piccola della nostra, ormeggiata con lunghissime cime di poppa, deve essere di qualcuno che l’ha lasciata qui per qualche mese. Ci ormeggiamo di poppa gettando 50 metri di catena su un fondale torbido di non si sa cosa. Ci accoglie subito un simpatico portuale che ci fa cenno di metterci dove preferiamo e si dà da fare per contattare l’autobotte che verrà a farci il rifornimento. Si danno da fare ma non sempre ottengono lo scopo, dopo diverse ore, richiamiamo noi la EKO e in 10 minuti arrivano. Galini è una vivace località di villeggiatura locale con una piccola percentuale di turismo internazionale. La cittadina si sviluppa verticalmente sul porto che è costellato di ristoranti a salire sulla collina. Stasera c’è un concerto proprio sul porto, che fortuna… 
Un cartello indica il parco di Dedalo e Icaro, lo seguiamo aspettandoci un bel giardino botanico e invece troviamo solo sopra un tetto due statue di padre e figlio. Il grande architetto che ideò il labirinto dove fu rinchiuso il minotauro ma dove fu poi condannato lui stesso, colpevole di aver aiutato Arianna nella storia del filo che provocò la salvezza di Teseo e l’uccisione del mostro. Lui ci mise tutta la sua inventiva per salvare se stesso e il figlioletto, creando delle ali per sorvolare l’architettura infernale e trovare l’uscita, ma Icaro passò troppo vicino al sole e si bruciò le ali. Morale: è proprio vero che il genio salta sempre una generazione. Lo avevo già notato anni fa in sede professionale. Felici di incontrare qualcuno dopo 20 giorni di solitudine, attacchiamo bottone con il gommonista italiano che scopriamo venire da Venezia. Ha macinato parecchie miglia anche lui ma è agli sgoccioli della vacanza, il 20 agosto deve essere in patria. Gli consigliamo di andare a Gavdos e il giorno dopo ci saluta partendo per la nostra isoletta preferita. Vista la civiltà del luogo troviamo anche la farmacia, Giovanni ha una sospetta infezione all’orecchio che diviene certezza non appena un nerboruto farmacista con gesti decisi è ben poco delicati gli tira il lobo dell’orecchio ed emette la sentenza. Oddio, non c’era bisogno di parole visti gli strilli di Giovanni in risposta al test medico improvvisato. 6 giorni di antibiotico e può fare tutto basta che stia lontano dal mare. Vaglielo a dire al farmacista che per noi a questo punto il mare intorno è meno sacrificabile dell’aria. Fatto sta che per necessità mediche, alcune consegne essenziali passano a me fino a fine cura. La più importante è il controllo dell’ancoraggio. Semplice operazione di verifica della presa dell’ancora sulla sabbia, valutazione se il calumo dato è sufficiente e perlustrazione dell’area tutt’intorno per scongiurare la presenza di pericolosi scoglietti. Mi sembra però che da quando questo compito è passato a me, sia diventata una operazione più meticolosa di prima, chissà come mai. Sadicamente poi viene inaugurato un altro metodo: il tuffo preliminare per l’individuazione del punto di ancoraggio esatto con conseguente controllo della presa dell’ancora successivamente. Insomma, qui si lavora, mica stiamo a pettinar le bambole eh?

venerdì 22 luglio 2011

Gavdòs. Io a Eolo lo avrei bocciato in 3a media.

Sarebbe stata una lezione utile alla formazione del suo carattere, non ho dubbi. Gli avrebbe insegnato l’umiltà e la capacità di mediazione, la pazienza e il rispetto per il prossimo, la temperanza, la moderazione e, soprattutto, gli avrebbe fatto capire che oltre al bianco e al nero esiste una infinita scala di grigi e che il bello della vita è appunto in quei grigi…
Vabbé, non lo hanno bocciato e il risultato è un ragazzo dispotico e capriccioso che o tiene una loquacità incontenibile oppure, quando gli dici un comprensibilissimo “E piantala!”, mette il broncio, incrocia le braccia e se ne sta lì con le guance gonfie senza emettere un fiato. Dopo 3 giorni di calma piatta, gli deve essere passata ed ecco, dimenticata l’offesa, che riprende il suo ostinato ed esagerato soffiare. 
Poco male, ci coglie sul lato est dell’Isola di Gavdos, lui strilla da Ovest incessantemente per 3 giorni con raffiche che registriamo oltre i 40 nodi. Gavdos è un bel posto per stare al riparo da una burrasca da Ovest. Peccato visitare solo da terra e non potersi fermare via mare sulle baie aperte a Nord,  Potamos, Ioannis e la famosa Sarakiniko, ma  a sud est c’è la spiaggia di Lakkoudi, una infinita distesa di ciottoli multicolori, rocce bianche verticali a picco sul mare, grotte e acque turchesi. 
Poco più giù c’è Ak Tripiti, il punto più meridionale d’Europa su cui è stata fissata una sproporzionata sedia  che guarda l’Europa. L’isola di Gavdos ha un turismo pressoché inesistente, fatto solo di camminatori. Ci si arriva anche in auto da Paleohora o da Sfakion ed ha una efficiente rete stradale, ma i pochi che incontriamo sono escursionisti che prendono camere in affitto sul mare e poi vagano per i sentieri dell’isola, spesso difficili, che portano quasi dappertutto. 
Anche qui sembra di essere in un fuori stagione di un posto isolato dal mondo e dimenticato da Dio e dagli uomini. Eppure splendido. Anche qui mi chiedo perché. Certo, non c’è mondanità, lusso o vita notturna, l’isola è selvaggia e selvatica, gli abitanti (una settantina, dicono) silenziosi, cortesi e discreti. C’è un porto nuovissimo, piccolo ma moderno, con un unico molo dove attracca il traghetto. Non c’è ufficio dell’autorità portuale, chiediamo a una signora gentile del comune di Gavdos che dice “Ah siete quelli della barca….” come ci diranno tutti  quelli che incontriamo e ci dice che senz’altro possiamo ormeggiare, il traghetto fino a domani sera non arriva e forse neanche dopo, vista la burrasca. 
Sul porto 3 taverne, siamo gli unici avventori e scegliamo di privilegiare Litsa, una vecchia signora molto ridanciana che ci prepara un pollo intero alla brace squisito e ci serve un piatto di “xorta” (tipo cicoria) davvero buona. Meno bene abbiamo mangiato il giorno prima alla taverna sulla spiaggia di Korfi dove dopo aver sbirciato le pentole in cucina abbiamo azzardato un pastitsio e un risotto alle seppie che non meritavano il contesto. Mentre ceniamo da Litsa, scopriamo che il proprietario della taverna di Korfi è suo figlio… Immagino Litsa che gli dice “Ma che vai ad aprire una taverna anche tu che non sai far nulla in cucina…”, però da Litsa non c’è nessuno, a parte noi e il marito che mangia guardando la tv e dal figlio invece un sacco di gente. Come mai? 
Boh, forse potere del marketing: su quella spiaggia un gruppetto di escursionisti nelle camere in affitto attigue alla taverne, forse il figlio ha attuato una politica di mezza pensione… Poi si è inventato un gioco/referendum: su un ciclostile trovi raccontate tre favole del “mondo che vorrei”, uno è il regno del dio denaro, uno il regno ecologico di Calipso, il terzo il regno della comunicazione (Apollo). Ogni avventore deve scegliere qual è il suo mondo dei sogni, togliere un sassolino dalla teca relativa e a fine stagione gli abitanti dell’isola seguiranno i dettami di quel mondo che sarà risultato vincente, ovvero corrispondente alla teca con meno sassolini. 
Scegliamo quella del mondo ecologico, la comunicazione mi ha un po’ rotto…, e poi si capisce già che vincerà l’ecologia. Ovviamente la teca del dio denaro è gremita di sassolini, ipocrisia? Ma no, credo davvero che a chi arriva qui importi poco del denaro, soprattutto nessun turista per quanto avido vorrebbe mai che qualcun altro si arricchisse a scapito del posticino bello ed economico che ha scovato per le sue estati…
Insomma, Gavdos è un gioiello incastonato nel mar libico. Temiamo di essere monotoni a descrivervi tutto ciò che stiamo vedendo come una meraviglia per gli occhi e io stessa fatico a trovare sinonimi per il bello che vedo ogni giorno, ma è così: qualche volta dobbiamo abbandonare una baia splendida a vantaggio di un ancoraggio più sicuro ma più anonimo, ma tutto ciò che abbiamo visto finora ha veramente un livello estetico superiore a ciò cui siamo abituati nella vita di ogni giorno. 
Rimpianti? Forse non poter vedere Creta da terra che deve essere altrettanto bella, poi pensiamo alle file per entrare a Cnosso, ai 1.000 al giorno in coda nelle gole di Samaria, al caldo che per mare non si sente e ci rendiamo conto di essere davvero fortunati. Il mare dà moltissimo e pretende in qualche modo una certa esclusività.

martedì 19 luglio 2011

Da Ormos Vroulias a Sfakion a Forza 0


Il fatto di non vedere alcuna barca in questa parte di Grecia è ben coerente con il non aver trovato in rete alcun consiglio per la navigazione sulla costa sud di Creta. Tale itinerario è anche fortemente sconsigliato dal portolano IMRAY che recita che la costa sud d’estate, a causa dei rilievi alti della montagna è quasi sempre investita da raffiche particolarmente intense e groppi di vento che possono essere di violenza eccezionale. Addirittura, a chi proprio intende fare questa rotta, viene caldamente consigliato di navigare a non meno di 5 miglia dalla costa. 
Noi invece non riusciamo a tirar fuori le vele, per tanti di quei giorni ormai che spesso mi scopro a chiedermi che altro uso potremmo fare dell’albero e delle sartie che in situazioni come queste sembrano tanto inutilmente ingombranti. Dopo Vroulias Bay, proprio in corrispondenza con le vette ripide e scoscese di Creta, il vento cala a 0, alla faccia del portolano e del suo autore, e ci regala 3 giorni di latitanza totale con buona pace per il nosro motore e per il serbatoio della nafta che lavorano a pieno regime. Eolo me lo immagino da bambino a scuola, parecchio capriccioso e un po’ stronzetto, di quei ragazzini prepotenti e un po’ asociali che devono sempre fare i bastian contrari. 
Me lo immagino come il figlio viziato di una famiglia ricca, che viene invitato a giocare a pallone solo perché lui possiede un pallone, poi se gioca male o se sta perdendo strappa la palla ai compagni e tenendosela stretto tra le mani dice “non si gioca più, il pallone è mio”.
L’assenza di vento porta anche una lieve onda lunga che ci impedisce di fermarci ovunque su questa tratta esposta e aperta al mare. Oltre a questo, in linea con il fatto di essere ben a sud, le temperature salgono oltre i 35°. Detto tutto ciò penserete che siano stati giorni d’inferno. No, non direi. 
Ci fermiamo a Paleohora, una piacevole cittadina dove ritroviamo una qualche forma turistica, taverne sulla spiaggia, musica serale, menu in doppia lingua, sport acquatici e addirittura il ricambio Camping Gas. A Paleohora c’è anche un porto, totalmente vuoto fatta eccezione per un traghetto in rovina e un paio di barchette di pescatori. Ci avviciniamo all’ingresso ma il fondo è torbido e marrone, non ci fidiamo a entrare temendo insabbiamenti che data la posizione del porto sono molto probabili. 
Quando l’ecoscandaglio arriva a segnare 3 metri, facciamo dietrofront e andiamo ad ancorarci in rada davanti alla spiaggia esposta a ovest.
Continuiamo il viaggio, scorrendo da vicino la costa passando da Sougia e vedendo le rovine dell’antica Lissos, poi Agia Roumeli, piccolo borgo sotto le impressionanti Gole di Samaria, un canyon attraversabile con un sentiero di 18 chilometri e 1.200 metri di dislivello che attira, dicono, 1.000 escursionisti al giorno. Noi sulla spiaggia, punto di arrivo ne vediamo una ventina, non di più, non ho idea di cosa ne sia degli altri 980.
A Loutro, anche definita come l’antica Phoenix, abbiamo la sensazione di essere degli attori su un palcoscenico. Il villaggio, fatto esclusivamente di domatia e taverne per i camminatori che sono l’unico target di questa parte dell’isola, è disposto ad anfiteatro intorno alla piccola baia/porto. Ci ancoriamo proprio al centro, a 15 metri dalla banchina. Ovviamente, a parte il traghettino che passa più volte al giorno da Paleohora e da Sfakion, siamo l’unica barca in zona. A Loutro si può arrivare solo via mare oppure con gli impegnativi sentieri che attraversano le montagne, roba da caprette più che da esseri umani bipedi. Il traghettino sbarca qualche umano e molti approvvigionamenti per le taverne. È un paradiso di quiete, anche a tarda sera vedi arrivare dalla montagna gli escursionisti più coraggiosi (o quelli che hanno calcolato male i tempi…). 
Vediamo flash dalla banchina verso di noi, mi viene quasi voglia di inchinarmi e poi di chiudere il sipario, non prima di aver raccolto qualche rosa lanciata dal pubblico (o qualche pomodoro). La seconda sera, stanchi di essere al centro dell’attenzione, ci spostiamo nella baia a Ovest, a farci compagnia un gruppo di pecore in una grotta sul mare e le caprette che dopo il tramonto si arrampicano sulla roccia rossa. Gli escursionisti tardivi che scendono al buio  il dirupo impervio dopo aver compiuto un percorso di almeno 6 ore, ci vedono giocare a carte in pozzetto. Non voglio pensare a come avranno commentato il fatto. D’altra parte ognuno si sceglie le vacanze che vuole, no?

sabato 16 luglio 2011

Creta West by South-West. "Quell'estate in cui a Creta arrivò una barca a vela"


Eccolo il famoso vento dell’Egeo. Arriva tutto insieme, appena leviamo l’ancora da Gramvousa, facendo quasi eco al mio “Ma perché mai dobbiamo andare?” corredato da dei “Partire è un po’ morire” e “Chi lascia la strada vecchia per la nuova….” fino ad arrivare ad un “di venere e di marte non si sposa, non si parte e non si dà principio all’arte” che visto che era martedì funzionava bene assai. Facciamo a tempo a passare tra la baia e lo scoglietto che il benedetto Eolo decide di tirar fuori tutte le sue forze: vento a raffiche che arrivano oltre i 35 nodi, impossibile mettere le vele se non riducendole in brandelli, andiamo avanti spinti da questa forza della natura e dal motore ma credo che anche senza motore avremmo fatto la stessa velocità. Il vento soffia da Nord Est, il mare è calmo visto che siamo protetti dall’isola ma bianco di schiuma, Eolo non ci lascia spazio a ripensamenti, tornare indietro, risalendo il mare sarebbe impresa faticosissima. Me lo immagino Eolo e penso che se continua così gli verrà un gran mal di testa, ricordando quello che mi diceva la mamma quando gonfiavo i palloncini con troppa foga, ma poi, cavoli di Eolo il suo mal di testa, vorrei che smettesse per rimettere via le giacche della cerata e godermi l’estate. 
Decidiamo di fermarci a Falasarna, 10 miglia dopo essere partiti, la baia è rafficatissima e il mare bianco di schiuma non permette di vedere i fondali, davanti alla spiaggia però il turchese - che nel nostro linguaggio segnala fondo di sabbia omogeneo, ottimo tenitore - è inconfondibile, ci ancoriamo sotto raffiche in 4 metri d’acqua. Passiamo così due giorni ad ascoltare i lamenti di Eolo e a fare la solita vita di mare ma con le vele ben chiuse. A terra un piccolo stabilimento e sulle colline sterminate coltivazioni in serra. Quando ti tuffi in acqua – che grazie al cielo ha riacquistato un paio di gradi – la corrente è tale che ti senti in un idromassaggio. La barca si muove secondo le raffiche di vento, forzando ora a destra ora a sinistra. 
Il rumore incessante del vento sembra un ospite fisso a bordo che ha molta voglia di chiacchierare, quelle persone un po’ moleste che per tenere banco alzano la voce se qualcun altro prende la parola. Non smette mai, neanche di notte. Il mare però è calmo e a Falasarna si sta una meraviglia. Aggiungiamo una seconda ancora a 45° rispetto alla prima con una certa divertita curiosità, si tratta di un’ancoretta leggera leggera in lega di alluminio, marca Bulldog di cui si raccontano prodigi nella tenuta. Sembra un’ancora giocattolo, con la sua catenella e 30 metri di cima, sembra Davide in confronto a Eolo-Golia. E invece tiene perfettamente, ma talmente tanto che Giovanni la vede scomparire sotto la sabbia in un attimo. Quando dopo 2 giorni, ci apprestiamo ad issarla sembra di essere incollati al cemento, non viene via per nulla al mondo. Bulldog, mai nome fu più appropriato. Funziona solo sulla sabbia ma approfitto di queste righe per consigliarla a chiunque navighi per mare.
Bloccati a Falasarna, inforchiamo un binocolo e scopriamo dietro la spiaggia un Falasarna Market dove vado a fare rifornimenti mentre Giovanni resta a guardia del forte. La seconda sera, il vento è calato a 18 nodi e ci regaliamo una cena alla taverna sul pianoro sopra la spiaggia.
Dalla taverna tutti i commensali vanno sul bordo del prato a scattare foto alla nostra barca al tramonto. Da quando siamo arrivati a Creta, tolto il tedesco, non abbiamo più visto una barca a vela e continueremo a non vederne per giorni. Come mai? Non lo so, Creta non è negli itinerari dei navigatori, troppo lontana forse, troppo grande, troppo rafficata e con pochi ripari nella parte sud? O forse è il mar libico a far paura? 
Non passa una barca a Falasarna fatta eccezione per un pescatore che viene a filare le sue reti proprio dietro P'acá y p'allá. Non vediamo barche nel tragitto verso Elafonissi. Ebbene sì, un’altra Elafonissi, questo nome per le isole sembra essere per i greci come “isola piana” per i sardi, quando non sanno come chiamarle, ecco che nasce una Elafonissi. Neanche una barca, sentiamo nostalgia del tedesco e guardiamo avanti sperando di ritrovarlo, quando molto a largo di Ormos Vroulias ne vediamo passare una quasi ci commuoviamo ma non si avvicina e non si ferma, è solo di passaggio, chissà magari viene da Suez e va verso Gibilterra. 

In questi giorni siamo stati oggetto di curiosità da parte di locali e turisti, chi nuotando dalla spiaggia per guardarci da vicino, chi fotografandoci da lontano. Immagino i locali identificare questi giorni come “quell’estate in cui passò la barca a vela”. Noto con piacere che P'acá y p'allá arricchisce qualsiasi panorama, lo rende umano, gli conferisce un senso di proporzioni e di eleganza, ma soprattutto lei da sola in mezzo a questi scenari dove la natura è padrona di tutto acquista un’importanza e una solennità tutte nuove. 
Elafonissi sarebbe bella, ovvero lo è, ma è una bellezza diversa da Gramvousa, molto più addomesticata e organizzata. Il suo guaio è che l’isola è collegata da un istmo di sabbia alla terraferma, oggetto di processione quotidiana dai turisti alloggiati negli alberghi di Vrimbokambos. Ci siamo ancorati lì vicino in un dedalo di scoglietti con un ancoraggio molto precario, siamo scesi a terra con il tender all’alba, prima dell’arrivo dei vandali. 
La sabbia è bianca e rosa e lungo la battigia c’è una specie di corallina viola, guardando bene sembrano minuscoli crostacei, l’effetto è unico, molto bello. 
Con l’arrivo dei processionandi, leviamo l’ancora e ci spostiamo, accompagnati dal maligno Eolo e dai suoi 35 nodi più a Est su Ormos Vroulias, una meraviglia e una gran bella sorpresa: riacquistiamo i colori di Zante, l’azzurro del mare è sterminato, visto da lontano è una sottile striscia ma avvicinandoci scopriamo che lo spazio di sabbia è enorme. 
A terra una decina di campeggiatori e un cane. Questa parte di Creta, fin dagli anni 70 è territorio di elezione degli alternativi, ieri gli hippies, oggi gli ecologisti, credo, o  i cultori della meditazione. Abbiamo fatto bene a scegliere la rotta sud, le montagne rosse e alte al tramonto diventano di fuoco, il silenzio appena Eolo smette di cantare, riempie ogni spazio e ogni tempo. 
La luna piena completa il quadro e lo rende indimenticabile. Anche qui, come a Falasarna, un pescatore arriva e fila le reti proprio intorno alla nostra barca, deve essere un rituale, forse pensano che porti fortuna oppure che anche i pesci si avvicinino a noi. In fondo, anche per i pesci questa deve essere “l’estate in cui  passò una barca a vela”.

lunedì 11 luglio 2011

Gramvousa. Un gran bel modo di arrivare a Creta.

Nella nostra traversata da Kythira a Creta, il vento è stato incredibilmente clemente. Tra i 15 e i 20 nodi da Nord Est, ci ha permesso di fare un bel lasco a tutta vela. Nel tragitto, passiamo a Antikithira, ve lo avevo detto che gli “Anti” in Grecia hanno sempre un loro perché, no? Antikithira è bella e dannata, il lato Ovest appare crudelmente inospitale con chi arriva dal mare: fondali profondissimi che non scendono sotto i 50 metri neanche sotto costa, a metà dell’isola un piccolissimo porto naturale tra gli scogli, valido solo per i gommoni e per le barchette in legno dei locali. Non c’è nessuno, d’altra parte non si vede una barca a perdita d’occhio. Riusciamo ad averla vinta a sud dell’isola e subito prima del faro, troviamo un fazzoletto di fondale a 10 metri su sabbia dove riusciamo ad ancorarci per un paio d’ore. Fondali stupendi, acqua limpida, l’alta roccia protegge dal vento, pure troppo. Ma il bello deve ancora venire. 
Poco prima del tramonto, raggiungiamo l’isola di Gramvousa e Balos Ormos a lei antistante, ovvero l’estremità a nord ovest dell’isola di Creta. È indiscutibilmente il più bel posto che io abbia visto da mare. Un piccolo tarlo mi rode pensando che probabilmente è anche il più bel posto che vedrò mai da mare. Nulla regge il paragone, non la Sardegna e la Corsica, non le Eolie, non le Pontine, ma neanche Seichelle e Maldive. Forse in Sud Africa o in Mar Rosso si potrà trovare qualcosa che equivalga Gramvousa, chissà. 
La prima notte, ci ancoriamo nella cala rivolta a Sud dell’isoletta, proprio accanto al relitto arrugginito di un mercantile che trasportava sacchi di Cemento. Giovanni si fa una nuotata al suo interno, io evito perché ho sempre in mente quella scena de “Lo Squalo” in cui dal relitto appare di colpo la testa senza un occhio della vittima dell’animale. Mi basta vedere un relitto che sento la musica “dan – dan – dan – dan- dan – dan”. 
Nei suoi pressi, sott’acqua in 3 metri di fondale, tonnellate di cocci di anfore.  Ecco, un piccolo inciso sull’acqua: siamo a un passo dall’Africa, siamo più bassi di Tunisi e Gramvousa ci accoglie con una temperatura dell’acqua che nel corso della giornata oscilla tra i 15 e i 19°. Sembra di fare il bagno nel ghiaccio lasciato sciogliere nel bicchiere, anestetizzante ma bello come solo i bagni veramente freddi possono esserlo, che esci dall’acqua e ti sembra di essere dimagrito di 5 chili.
 Lo scenario è lunare, di fronte a noi  una vera e propria dolomite che al tramonto si tinge di rosa, sotto di noi acque turchesi e su Gramvousa un antico forte e una anomala distesa fittissima di agavi. In rada con noi un gommone che fa campeggio nautico e l’Hanse del navigatore solitario tedesco che avevamo già incontrato a Elafonissi.  A terra, un pescatore, che abita un piccolo rudere dietro la spiaggia ,chiama ininterrottamente il suo cane nero. Il giorno dopo ci spostiamo nell’anti-Gramvousa, ovvero Balos ormos, un dedalo di sabbia inframmezzata ad acqua sormontata dalla dolomite rosa. Nonostante arrivino 2 barconi con un po’ di turisti ed altri ne scendano via terra  facendo a piedi 2 km e prima 18 di strada sterrata, non cambia nulla, il luogo resta misticamente stupendo. Qui la natura vince su tutto, nulla sembra poter intaccare questo scenario di incredibile suggestione. Il silenzio è assordante, mai ossimoro fu più indicato, qui senti il rumore del silenzio, chi ci crede forse sente anche la voce di dio. 
Scendiamo a terra con il tender e ci mettiamo a camminare tra istmi, laghetti salati interni,  canali, e spiagge inframezzate da scogli etti. Risaliamo un po’ la montagna rocciosa. Come sarebbe vivere a Gramvousa? Primitivo, mistico, ascetico. Da mezza costa sulla montagna riesco a contare almeno 15 colori di mare diverso, anche senza occhiali da sole sembra tutto polarizzato, saturo, è un trionfo di colori.
Qualche gruppetto fa campeggio libero dietro le dune, sono silenziosi, non giocano a racchettoni, non strillano a Giggetto di uscire che ha le labbra viola, non sembrano neanche brutti, non portano colori sgargianti. È Gramvousa che rende elegante il tutto o sono le persone più belle che scelgono di venire fin qui? Non lo so, cerco di approfondire mentre Giovanni va su e giù per la montagna a far foto, parlando con una famiglia di italiani. Lei, lui, una figlia di 14 anni, quella di 22 l’hanno lasciata a Ravenna perché ha iniziato uno stage. Lei avrà la mia età, forse un paio d’anni di meno. “Voi siete quelli della barca?” chiedono, d’altra parte siamo l’unica barca, dopo che stamattina il tedesco, salutandoci con un gesto che identifichiamo con un “ci rivediamo più a sud”, è andato via. Lui è un velista, ha un piccolo 21 piedi a Ravenna e come ci accade sempre più spesso, ci ascolta con gli occhi pieni di sogni e a un certo punto dice “Presto lo faremo anche noi, un bel sabbatico in barca in giro per il mediterraneo…” Come sempre, lei che si dichiara un po’ paurosa, frena e indicando la figlia dice “magari prima facciamo grande lei”. Che bella frase “facciamo grande lei”, di solito le mamme dicono “quando lei sarà grande” o “aspettiamo che abbia finito le scuole”, trovo che invece il “facciamo grande lei” sia stupendo, sa di progetto, sa di vittoria.
Sappiamo che dobbiamo continuare, sappiamo che non siamo ancora neanche a metà del viaggio che abbiamo pensato, ma facciamo davvero fatica a lasciarci Gramvousa alle spalle. Cerco di prendere tempo dicendo che tra due giorni è luna piena e che impaginata qui a Gramvousa sarebbe perfetta ma Giovanni non cade nel tranello, impietosamente tira su l’ancora e si va.

sabato 9 luglio 2011

Kythira on the road.


Al terzo giorno a Kapsali, dopo aver riormeggiato all’inglese, ovvero in sicurezza, sotto benedizione dell’amico portuale,  decidiamo di armarci di moto in affitto e girare l’isola da terra. Sul lungomare, Panayotis affitta auto, scooter e moto enduro. Per inciso, va detto che Panayotis è il miglior esempio di professionalità ed eccellenza nel servizio che io abbia visto negli ultimi anni, non solo qui in Grecia, ovunque. 
La sua perfezione lascia commossi: caschi nuovi con ancora l’etichetta attaccata, moto con il pieno e ci dice di riportarla pure a secco, ci pensa lui, cartellina in dotazione con piantina dell’isola piccola e carta stradale grande. Quando torniamo ci regala una copia di una stampa di Kapsali negli anni 50. Ecco, vorrei portarmi a casa Panayotis e fargli fare un seminario sulla cultura del servizio al cliente agli imprenditori italiani ma poi penso che Panayotis sta bene dove sta in questo momento e sinceramente pure io. Scegliamo una Kawasaki Sherpa 250 che per le strade sterrate di Kythira con le raffiche di vento ci sembra la soluzione migliore. 
Anni fa a Karpathos avevamo preso in affitto una Enduro e girato l’isola in lungo e in largo per due giorni. Appunto… anni fa, per la precisione 21. Triste accorgersi che gli anni passano mentre sei a bordo di una moto… Comunque, teniamo duro e facendo finta di niente ci giriamo gran parte dell’isola, per prima cosa andiamo ad Avolemona, un borghetto di pescatori parzialmente addomesticato ad un blando e silenzioso turismo. 
Sul molo un paio di barche a vela ma con pescaggio ridotto rispetto al nostro, all’ancora fuori un’altra barca nel posto che avremmo scelto noi per l’ancoraggio. Pranziamo lì sotto un sole scottante con una enorme insalata greca. Poi proseguiamo andando giù lungo la sterrata fino ad una bellissima spiaggia a Kaladi. Siamo viziati dagli agi della barca, fare un bagno a mare senza poter fare la doccia dopo e tenersi addosso il costume bagnato ci sembra un sacrificio duro da compiere. Passa subito. Ancora un po’ di chilometri in sella con buona pace delle mie ernie lombari e siamo a Mylopotamos, lungo la strada una plateia (piazza) ombreggiata da platani, ci sediamo a bere una soda tra vecchietti che si ubriacano di ouzo. 
Nelle cittadine che attraversiamo negozi di souvenir (per chi? Qui in luglio non sembra esserci un turista) traboccano di oggetti realizzati con un fiore che sembra mimosa, devono avere un significato religioso,  ma non so quale. Raggiungere le cascate di Fonissa è una meraviglia, scendi il piccolo canyon tra le piante e lo stormire di cicale, sentendo l’acqua scorrere sule pareti. Mi tuffo immediatamente nelle gelide acque dolci sotto la cascata. 
Giovanni assaggia l’acqua e fa un passo indietro, troppo fredda, dice. In realtà credo che lo rimpianga quel bagno gelido e rinfrescante. Siamo tornati a Kythira dopo 25 anni dalla prima volta e l’abbiamo ritrovata intatta, esattamente come allora. Mi chiedo come mai quest’isola non sia stata scoperta dal turismo vacanziero, in fondo c’è un aeroporto, è raggiungibile facilmente anche via terra, un po’ lungo il viaggio in auto ma non poi così tanto. Il mare è limpido, pulito, la costa rocciosa ma ricca anche di belle spiagge, la chora è bella, tipica, dal forte veneziano del 1300 si vede un panorama stupendo. È un’isola ideale per camminatori con i suoi numerosi sentieri ben descritti in un libro di un olandese che si è trasferito a vivere qui. E poi ovunque, profumo di timo. 
Con la sua posizione strategica tra il Peloponneso e Creta, Kythira è sulla rotta di molte navi che vanno da Est a Ovest del Mediterraneo (e viceversa) evitando il canale di Corinto. Con un po’ di immaginazione da Kapsali senti il profumo dell’Africa. Con molta immaginazione ti imbarchi virtualmente su quei cargo che vedi passare e in un attimo sei nel canale di Suez.